
Casal di Principe. Nel corso di un’udienza tenutasi a Napoli, Francesco Schiavone, noto come “Sandokan”, ha dichiarato di voler riprendere i rapporti con la magistratura. Il boss, storico leader del clan dei Casalesi, ha espresso questa volontà durante il processo che lo vede imputato, insieme all’ex collaboratore di giustizia Giuseppe Pagano, per un triplice omicidio avvenuto nel 1983.
Durante l’udienza, Schiavone ha chiesto di essere interrogato formalmente, richiesta respinta in quanto privo di un legale di fiducia. Gli è stato però concesso di rilasciare dichiarazioni spontanee. In un discorso disordinato e faticoso, ha affermato di aver già partecipato a 19 interrogatori, chiedendosi perché sia stato nuovamente assegnato al regime di carcere duro (41 bis). Per la prima volta ha ammesso il proprio coinvolgimento in un agguato mortale, negato invece in passato. Secondo il racconto, Pagano si sarebbe autoaccusato senza colpe, mentre lui riconosce ora una responsabilità.
Il pubblico ministero ha chiesto la conferma dell’ergastolo già comminato in primo grado, sentenza ottenuta attraverso un giudizio abbreviato, scelta insolita per Schiavone. La prosecuzione del processo è fissata per fine maggio, quando parleranno i legali.
Tornando alla vicenda della sua collaborazione, l’inizio risale a marzo dell’anno scorso. In quel contesto, suo figlio Emanuele fu scarcerato. Tuttavia, il giovane — considerato un erede del clan — non condivise la decisione del padre e, una volta tornato in libertà, sarebbe stato coinvolto in nuove dinamiche criminali, finendo quasi vittima di un agguato.
Dopo pochi mesi, il percorso di pentimento di Schiavone si è interrotto. Secondo fonti giudiziarie, la decisione fu presa perché le sue dichiarazioni risultarono incomplete: non avrebbe toccato temi cruciali, tra cui quello dei rifiuti tossici nella cosiddetta “Terra dei fuochi”.
Le sue recenti parole riaccendono interrogativi: si tratta di un reale desiderio di redenzione o di una strategia per ottenere benefici processuali?