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Vanno per l’arsenale, trovano 2 nascondigli del clan: le indagini sulla rete del boss

CASAPESENNA. Emergono nuovi spiragli nel sistema Zagaria, atto di individui disposti a mantenere il silenzio a qualsiasi costo, persino quello della reclusione. Un intreccio di relazioni consolidato da vincoli familiari, talmente radicato da erigere un muro di omertà quasi impenetrabile.

Lo scorso 18 febbraio, i carabinieri hanno individuato due possibili covi che, secondo le ipotesi investigative, potrebbero aver fornito riparo a Zagaria o ai suoi uomini, consentendo loro di sfuggire alla cattura. Le strutture – come rivelato dall’edizione odierna di Cronache – si trovano in un’abitazione al civico 12 di via Luigi Einaudi. Nonostante le frequenti fughe all’estero, fino al 7 dicembre 2011, giorno del suo arresto in via Mascagni, il boss Michele Zagaria ha continuato a dirigere il gruppo criminale rimanendo stabilmente nell’Agro Aversano, spostandosi da un rifugio all’altro.

I nascondigli

L’operazione è stata condotta dai carabinieri del Nucleo investigativo di Caserta, impegnati nella ricerca di armi detenute illegalmente. L’indagine ha portato i militari a perquisire la casa di Ernesto Adriano Falanga, 56 anni, residente a Casapesenna. È stato lo stesso Falanga ad ammettere l’esistenza di un nascondiglio nell’edificio. Il primo rifugio, indicato dall’uomo, si trova nella cantina ed è accessibile tramite una scala nel cortile. L’entrata, mimetizzata dietro uno scaffale, è protetta da una porta in cemento armato.

Durante l’ispezione, i militari hanno scoperto un secondo bunker, non segnalato da Falanga. Questo si trova all’interno di un bagno ed è nascosto da un pannello scorrevole. Più piccolo rispetto al rifugio sotterraneo, presenta due supporti per accedere a una seduta in cemento. Entrambi i bunker sono dotati di illuminazione.

L’arsenale

Oltre ai nascondigli, gli investigatori, hanno trovato una pistola mitragliatrice. L’arma era occultata all’interno di un secchio di vernice nel primo bunker. Insieme alla mitraglietta, sono stati rinvenuti 149 proiettili di diversi calibri e due caricatori, uno destinato alla mitragliatrice e l’altro a una pistola. Il ritrovamento ha confermato il sospetto iniziale che aveva motivato la perquisizione: la presenza di armi clandestine.

La scoperta dei bunker ha spinto gli inquirenti a ipotizzare un legame con il clan Zagaria, considerando la storia della proprietà. L’abitazione apparteneva originariamente a Elvira Maria Elena Zagaria, che nel 2014 ne acquisì la totalità delle quote dai suoi figli. Dopo la sua morte, l’edificio è stato ereditato dai nipoti, tra cui il boss Michele Zagaria e i suoi fratelli Carmine, Pasquale e Antonio, oltre alle sorelle Gesualda, Elvira e Beatrice. Quest’ultima è la madre di Filippo Capaldo, ritenuto dagli investigatori uno degli uomini più vicini a “Capastorta”. Tuttavia, al momento del blitz, la casa non era occupata da nessuno di loro, ma da Falanga.

In sintesi, l’edificio in cui sono stati trovati i rifugi segreti apparteneva alla zia del boss e, alla sua morte, è passato formalmente a Michele Zagaria e ai suoi familiari. L’ipotesi che questi bunker siano stati utilizzati dal capo clan o dai suoi affiliati durante la latitanza resta un’ipotesi investigativa, che dovrà essere confermata nel prosieguo delle indagini.

Le accuse

Attualmente, Ernesto Adriano Falanga è detenuto con l’accusa di detenzione illegale e ricettazione di un’arma da guerra. Nessun reato di stampo mafioso gli è stato contestato, ma i suoi legami con il clan Zagaria non si limitano all’abitazione in cui risiede. L’uomo è infatti imparentato, tramite la moglie, con Giovanni e Giuseppe Garofalo, noti come i “Marmolari”, due figure di spicco del clan dei Casalesi e uomini di fiducia di Zagaria. Furono proprio loro, secondo gli investigatori, a gestire parte della latitanza del boss.

I legali di Falanga, Guido Diana e Ferdinando Letizia, hanno presentato ricorso al Tribunale del Riesame contro il provvedimento di detenzione. Il 56enne, come previsto dalla legge, è da considerarsi innocente fino a un’eventuale sentenza definitiva di condanna.

 

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