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Fiancheggiatori volevano avvelenare Zagaria col cibo: “Se deve pentirsi è meglio che muore”

 

 

CASAPESENNA. Così ingombrante da essere meglio “da morto” che “da vivo” secondo i suoi stessi fiancheggiatori. C’era l’idea – mai portata a compimento – di avvelenare col cibo il boss Michele Zagaria. E’ questo lo scenario che emerge dall’ultima ordinanza sui Casalesi quella che due giorni fa ha portato la Finanza ad arrestare 48 persone.

Gli investigatori vengono a sapere dall’idea grazie alle cimici piazzate per ascoltare i dialoghi tra Giuseppe e Luisa Guarino, quest’ultima moglie di Giacomo Capoluongo. I due fratelli parlano, forse millantando forse no, della possibilità di uccidere Zagaria col pasto. Il boss non è ben visto perchè il monopolio sulle farmacie dell’agro averasno che sognavano in realtà non si è concretizzato.

E’ il 2018 e quel boss che dà di matto in videoconferenza, così lontano da quell’ombra invisibile che incombeva per anni sull’agro aversano, fa dire cose terribili: “Se si deve pentire, allora è meglio che muore”.

“Questa è l’unica paura che tengo – dice la donna nel dialogo intercettato e riportato da “‘Il Mattino” – . Ho sempre detto… quello deve morire il più presto possibile, tiene un fegato a pezzi, Giacomo… metticelo un poco più… che quello due minuti e schiatta… il fegato e abbiamo risolto il problema. Finché quello non muore io sto con la palpitazione… col mal di stomaco”.

Il ruolo di Guarino

Tutto nasce da un accertamento tecnico, una consulenza, affidata dagli investigatori a un funzionario della Banca d’Italia che ha fatto emergere flussi finanziari anomali. A gestire il sofisticato meccanismo, basato sull’emissione di fatture per operazioni inesistenti da parte di una fitta rete di società fittizie, erano persone legate alla fazione “Zagaria” del clan, in particolare Giuseppe Guarino, cognato di Giacomo Capoluongo, fratello di Maurizio, che è stato scarcerato di recente dopo avere scontato una pena al 41bis. Ma, ai vertici c’erano anche Luigi Esposito, Salvatore Prato e Armando della Corte, tutti finiti in carcere.

Il sistema a tre punte

Il sistema, complesso e stratificato – sono tre i livelli individuati: società “a monte”, società “a valle”, e “spicciatori” – ha consentito di ricavare denaro contante da destinare al welfare sfruttando un sistema appositamente studiato da “colletti bianchi”. I settori “merceologici” individuati per le truffe sono quello dei carburanti e del legname: il primo è stato scelto – ritengono i pm – in virtù dell’entità dei guadagni che è in grado di generare (milioni e milioni di euro non pagando accise e Iva). Ma un peso nella scelta l’hanno avuto anche le difficoltà insite nell’accertamento delle frodi, che emergono solo dopo diversi mesi, in sede di dichiarazione. E nel frattempo, il clan accumulava ingenti somme. Fondamentale, è emerso dall’attività investigativa, è risultato il ruolo ricoperto dalla fitta rete di “spicciatori” (una trentina quelli finora individuati) incaricati di eseguire i prelievi di denaro contante in banca o alle Poste, per cifre contenute in maniera tale da non innescare gli “allert” dell’antiriciclaggio.

In ballo quasi 100 milioni

Le somme prelevate, comunque, ammontano complessivamente, a 80-100 milioni di euro, nel periodo che va tra il 2016 e il 2020. Mediamente sono stati prelevati circa 55mila euro al giorno. Il denaro poi veniva ceduto a esponenti del “clan dei Casalesi” che lo utilizzavano per provvedere al sostentamento delle famiglie di detenuti del clan. Tra gli “spicciatori”, una figura assimilabile ai pusher che nelle piazze di spaccio vendono lo stupefacente “al dettaglio”, spicca una donna che tra il 20 ottobre 2019 e l’8 gennaio 2020 ha movimentato sui suoi rapporti finanziari fittizi oltre 6 milioni di euro, provenienti, tra l’altro, da società già coinvolte in altri procedimenti penali per reati tributari.