
GRAZZANISE/CASAPESENNA. Chiesta una condanna complessiva di 35 anni per la gestione fittizia di un’azienda bufalina collegata al clan Zagaria
Il sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, Ciro Capasso, ha chiesto una pena totale di trentacinque anni di detenzione al termine della requisitoria nel processo in corso presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Il procedimento, che vede imputati diversi membri della famiglia Zagaria e altri soggetti, riguarda la gestione illecita di un’azienda zootecnica situata nella frazione Brezza di Grazzanise, ufficialmente intestata a Raffaella Fontana, madre del boss Michele Zagaria.
Davanti alla prima sezione penale, il pubblico ministero ha avanzato richieste di condanna precise: 14 anni per Antonio Zagaria (classe 1975); 6 anni per Aristide Cassella; 5 anni ciascuno per Antonio Zagaria (classe 1962), Carmine Zagaria e Fernando Zagaria. Le discussioni delle difese sono previste per il mese di luglio.
Sul banco degli imputati ci sono, tra gli altri, i fratelli Antonio e Carmine Zagaria, entrambi legati al capoclan Michele Zagaria, l’amministratore giudiziario Aristide Cassella, nonché altri due omonimi – Antonio e Fernando Zagaria – che, secondo l’accusa, avrebbero messo a disposizione del clan le proprie attività imprenditoriali.
L’inchiesta ha preso forma a seguito del sequestro, eseguito dalla Guardia di Finanza nel maggio 2020, di un’azienda per l’allevamento di bufale e la produzione di latte crudo, situata nella zona di Brezza. Secondo gli inquirenti, l’attività era nelle mani dei fratelli Zagaria, i quali la utilizzavano per sostenere le finanze dell’organizzazione criminale.
La struttura zootecnica includeva stalle, locali per la mungitura, depositi, attrezzature e circa 367 capi di bestiame. La Dda e il Gico ritengono che fosse stata utilizzata per rientrare illegalmente in possesso dell’azienda originariamente intestata alla madre, già sottoposta a sequestro e amministrazione giudiziaria, acquistandola per appena 100mila euro tramite un’asta. Grazie alla collaborazione degli imprenditori omonimi non legati alla famiglia, il clan avrebbe potuto continuare a operare in un settore strategico e redditizio nonostante i provvedimenti di confisca.