
Santa Maria Capua Vetere. Un elemento apparentemente marginale si è rivelato invece decisivo: cinque compresse rinvenute nella cella di Hakimi Lamine, cittadino algerino, rimaste intatte mentre un micidiale mix di farmaci psicotropi e oppioidi ne provocava la morte. Questo è quanto emerge dall’analisi della scena in cui è avvenuto il decesso, documentata nella perizia medica acquisita ieri dalla Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere, nell’ambito del maxi-processo che vede imputati 105 agenti di polizia penitenziaria per le violenze sui detenuti del 6 aprile 2020.
Secondo il rapporto medico, basato su un esame esterno del corpo, Hakimi è deceduto nella notte tra il 3 e il 4 maggio. La dottoressa incaricata ha rilevato che il cadavere si trovava sul letto, con tracce di vomito accanto, segnale di un probabile malessere. Tuttavia, a sollevare dubbi sono state proprio quelle pillole: se avesse pianificato il suicidio, perché non le aveva ingerite tutte insieme? Il fatto che fossero ancora lì ha portato gli esperti a escludere l’ipotesi candidamente di un gesto volontario.
Il mix di farmaci
L’attenzione si è quindi spostata su un’altra ipotesi: una reazione accidentale tra i farmaci che Hakimi assumeva abitualmente e una sostanza oppioide, la buprenorfina, utilizzata per trattare il dolore acuto e cronico. Secondo la testimonianza del dottor Luca Lepore, questa sostanza potrebbe essergli stata procurata da un altro detenuto, portando così a una fatale interazione chimica. Anche l’autopsia successiva ha confermato l’assenza di segni di violenza riconducibili ai pestaggi, rafforzando l’ipotesi di un’overdose involontaria.
Un altro dettaglio rilevante è emerso pochi giorni dopo il decesso, il 10 maggio 2020, quando il consulente dell’accusa ha escluso la presenza di ecchimosi o lesioni compatibili con percosse fatali. Domani il processo riprenderà con l’audizione di alcuni testimoni chiamati a riferire su un pacchetto di intercettazioni telefoniche legate al caso.
I casi più delicati
Nel frattempo, sempre ieri, un altro detenuto ha lasciato il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Si tratta di un 37enne siciliano arrestato per associazione mafiosa nel novembre 2024. Il recluso, infatti, il 20 gennaio aveva tentato il suicidio all’interno della casa circondariale, e la moglie, in un accorato appello rivolto alla magistratura, aveva chiesto un intervento urgente per il peggioramento del suo stato fisico e psicologico. Il gip ha quindi disposto per lui l’obbligo di dimora nel suo paese natale, Biancavilla, con l’obbligo di presentarsi regolarmente alla polizia giudiziaria.
Secondo il legale, le condizioni di salute del suo assistito erano ormai incompatibili con la detenzione: negli ultimi mesi avrebbe subito un drastico peggioramento, perdendo circa 15 chili e manifestando un grave disagio psicologico. Questi casi riportano al centro del dibattito pubblico le condizioni dei detenuti nelle carceri italiane, tra il sovraffollamento, le carenze sanitarie e le difficoltà nel monitoraggio dei più vulnerabili.