
Santa Maria Capua Vetere. Il megaprocesso con 105 accusati, relativo alle presunte brutalità avvenute nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020 e in corso davanti alla Corte d’Assise, continua a riservare sorprese e, in alcuni casi, a rivelare incongruenze.
Uno degli aspetti emersi nell’ultima udienza riguarda le modalità con cui sono stati identificati gli agenti coinvolti e l’impiego di elementi estranei ai fatti contestati. Un punto chiave della sessione, guidata dal presidente Roberto Donatiello, è stato il tema dell’attribuzione delle responsabilità. Il tenente colonnello Claudio Ciampini, all’epoca operativo presso il RIS di Roma, ha dichiarato che, su oltre cento agenti considerati responsabili di violenze, solo 11 sono stati sottoposti ad accertamenti tecnici basati sulla comparazione tra foto ufficiali e immagini tratte dai sistemi di videosorveglianza. Per due di loro è emersa una compatibilità moderata, mentre per gli altri nove non è stato possibile giungere a un’identificazione certa. Tuttavia, questa metodologia non è stata estesa agli altri novanta agenti sotto accusa, per i quali la Polizia Giudiziaria, ossia i carabinieri di Santa Maria Capua Vetere, ha adottato criteri più empirici, come il confronto tra fotogrammi dei video e immagini estrapolate da fonti aperte, inclusi social network come Facebook.
Durante la deposizione in aula – che vede tra gli imputati agenti di polizia penitenziaria, dirigenti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) e personale medico dell’ASL di Caserta – la difesa ha posto diverse domande a Ciampini, il quale nel 2020 era a capo della sezione audiovideo e riconoscimento facciale del RIS di Roma. L’ufficiale aveva ricevuto, su richiesta dei carabinieri di Santa Maria Capua Vetere e su delega della Procura locale, il compito di identificare gli agenti sospettati, utilizzando fotografie dei tesserini di servizio e documenti d’identità da comparare con le immagini dei filmati interni del carcere. L’avvocato Edoardo Razzino, difensore di alcuni imputati di rilievo come l’ex comandante della polizia penitenziaria Gaetano Manganelli, ha chiesto a Ciampini se il riconoscimento facciale basato su foto prelevate dai social network fosse attendibile e se il RIS ne facesse uso. L’ufficiale ha chiarito che tali immagini non vengono impiegate per identificazioni ufficiali, in quanto non garantiscono l’autenticità del soggetto ritratto, a meno che non si tratti di persone già note per altre indagini.
Un caso emblematico di errore nell’identificazione riguarda l’agente Giuliano Zullo, arrestato nel giugno 2021 per uno scambio di persona. Il detenuto Giuseppe Calanni, con precedenti per droga e successivamente trasferito in una comunità terapeutica, aveva indicato come autore delle violenze l’agente Angelo Di Costanzo, ma i carabinieri, basandosi su una semplice comparazione di foto tratte da Facebook, attribuirono invece la responsabilità a Zullo. In seguito, emerse che quest’ultimo non era nemmeno in servizio il giorno dei fatti, portando all’archiviazione della sua posizione. Questo episodio solleva dubbi sulla credibilità del metodo utilizzato per individuare i presunti responsabili.
Un’altra questione controversa discussa in udienza riguarda la frase «Li abbattiamo come vitelli», che ha avuto un ruolo significativo nelle fasi preliminari delle indagini e nei provvedimenti cautelari. L’espressione era stata estrapolata da una chat di gruppo trovata nel cellulare di uno degli imputati, ma è stato successivamente dimostrato che i partecipanti a quella conversazione non erano coinvolti nei fatti del 6 aprile 2020. Nonostante ciò, la frase venne comunque inserita nell’ordinanza per rafforzare l’ipotesi di una pianificazione premeditata delle violenze. In aula, è stato chiesto chi avesse effettuato questa associazione, ma un testimone della Polizia Giudiziaria ha negato di aver stabilito direttamente tale collegamento, suggerendo che l’interpretazione del contenuto della chat sia stata fatta a un livello successivo.
Infine, l’udienza ha toccato un ulteriore nodo irrisolto: la sparizione del video di un colloquio tra il detenuto Hakimi Lamine, successivamente deceduto, e un medico. La difesa aveva richiesto accertamenti per capire che fine avesse fatto il filmato, ma la Corte ha ritenuto che, dopo cinque anni, non sia più possibile effettuare verifiche tecniche affidabili.