I NOMI. Casalesi da esportazione, 55 indagati: sequestri per ditte, sale e ristoranti. Scattate 80 perquisizioni
CASAL DI PRINCIPE. Ottanta perquisizioni e un’ordinanza, emessa dal gip di Bologna, che ha disposto misure cautelari nei confronti di nove persone (cinque in carcere, tre agli arresti domiciliari e un obbligo di dimora) per i reati di associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio, intestazione fittizia di beni, turbativa d’asta, corruzione, emissione ed utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, a cui si aggiunge il sequestro preventivo delle quote sociali e dei beni di ben 17 imprese in 11 province.
Gli indagati sono 55
E’ questo il bilancio dell’operazione anticamorra ‘Darknet’, illustrata questa mattina in conferenza stampa a Rimini, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia ed eseguita da 300 finanzieri di Rimini, del Gico di Bologna e di altri 14 Comandi provinciali in Emilia-Romagna, Campania, Calabria, Lazio, Lombardia, Marche, Basilicata e Piemonte. In particolare, è stata “disarticolata un’associazione criminale di matrice camorristica, con base nella Bassa Romagna, a Cattolica, ma con ramificazioni e interessi economici anche in altre province (Avellino, Napoli, Salerno, Potenza, Matera, Pesaro-Urbino, Forlì-Cesena, Parma, Torino e Milano)”, con al vertice personaggi legati al clan dei Sarno e dei Casalesi, rispettivamente egemoni sul quartiere Ponticelli di Napoli e nell’Agro Aversano. Le persone coinvolte, a vario titolo, sono 55, e per alcune di loro i reati contestati sono aggravati dal fatto di averli commessi al fine di agevolare i rispettivi clan di appartenenza.
Sequestro da 30 milioni
Per quanto riguarda le 17 imprese, dislocate in 11 province, gli investigatori ritengono fossero “infiltrate dalla criminalità organizzata e fittiziamente intestate a prestanome”, operanti operanti nei settori dell’edilizia, della ristorazione, del commercio all’ingrosso di prodotti petroliferi, delle sale gioco, dell’ impiantistica e del noleggio auto, del valore complessivo stimato di 30 milioni di euro. E stato inoltre eseguito il sequestro per equivalente, per i reati di riciclaggio e corruzione, di altri beni e disponibilità per un valore di circa un milione di euro. Le indagini del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Rimini sono partite da Cattolica, dove risulterebbero domiciliati diversi esponenti della criminalità organizzata campana e i loro familiari, e sono state avviate nel novembre 2017 sotto il coordinamento della Procura di Rimini. Successivamente l’inchiesta è stata trasferita per competenza alla Procura distrettuale di Bologna, pubblico ministero, Marco Forte.
I nomi e le parentele
Le investigazioni hanno fatto emergere l’esistenza di una “compagine criminale stanziata nella provincia riminese, al cui interno si evidenziano, in posizione di predominio: Giovanni Iorio (finito in carcere), pluripregiudicato, sorvegliato speciale e cognato di Vincenzo Sarno, capo dell’omonimo clan napoletano e oggi collaboratore di giustizia; Luigi Saverio Raucci (finito a sua volta in carcere), pluripregiudicato, gravato da quattro condanne definitive per reati contro la persona e in materia di armi e genero del pluripregiudicato Enrico Zupo, nonché cugino di Iorio, e Antonio De Martino (anche lui in carcere), volto ‘pulito’ dell’associazione, che gestiva le società di impiantistica industriale, di cui Iorio e Raucci erano soci occulti ed effettivi dominus”. Accanto a loro sono stati individuati altri due livelli. Il primo è costituito da coloro che “avrebbero posto consapevolmente la propria attività al servizio del sodalizio, vale a dire Salvatore Zupo, Francesco Cercola (entrambi in carcere), Pasquale Coppola e Tania Ginefra (che si trovano invece agli arresti domiciliari)”.
Nel secondo livello rientrano invece oltre 30 persone “che si sarebbero prestate nell’attività illecita, specie di interposizione fittizia, ma dei quali non vi è certezza della partecipazione al sodalizio criminale, trattandosi di persone reclutate all’occorrenza per ragioni di parentela o vicinanza con i singoli indagati, come nel caso di Paola Signorino (incaricata di pubblico servizio, agli arresti domiciliari) e Gennaro Stapane (destinatario di obbligo di dimora)”. L’organizzazione era riuscita, in breve tempo, a “infiltrarsi nell’economia legale della Romagna e aree limitrofe, controllando diverse attività economiche e drenando risorse mediante fatturazioni per operazioni inesistenti; ad asservire la funzione pubblica di due incaricati di pubblico servizio agli scopi dell’organizzazione criminale per l’acquisizione illegale di appalti pubblici”. Ancora, “a reinvestire e auto-riciclare in attività imprenditoriali, immobiliari e finanziarie ingenti somme di denaro derivanti da attività delittuose; intestare a terzi ingenti patrimoni e attività commerciali frutto di attività estorsive e dello spaccio di droga e affermare il proprio controllo egemonico sul territorio basso romagnolo e potentino, attraverso la repressione violenta dei contrasti interni”.
I trucchi col commercialista
In particolare, secondo gli inquirenti, Iorio e Raucci, nonostante un reddito “apparentemente insufficiente a soddisfare i fabbisogni primari”, in realtà avevano “un’elevata disponibilità economica, derivante – come chiarito dalle intercettazioni telefoniche e ambientali – dalla loro partecipazione occulta in numerose società formalmente intestate a prestanome”. I due, infatti, ” con la connivenza del commercialista Pasquale Coppola, drenavano gli utili emettendo fatture per operazioni inesistenti per centinaia di migliaia di euro e prelevando poi in contanti i pagamenti ricevuti”. Inoltre, società di fatto riconducibili ai due pregiudicati “erano riuscite ad ottenere, tramite pratiche corruttive e alterando le gare d’appalto, l’esecuzione di lavori pubblici all’interno della Stazione sperimentale per l’industria delle conserve alimentari di Parma, fondazione pubblica interamente controllata dalla Camera di commercio di quella provincia”. I proventi illeciti venivano poi riciclati utilizzando una sala giochi e scommesse di Cattolica, riconducibile sempre agli indagati principali, ma gestita formalmente da Tania Ginefra, che per riciclare le somme provenienti dai reati contestati “aveva in più circostanze simulato vincite al gioco”.