Casagiove/Maddaloni/Caivano. Il ristorante a Casagiove. C’è il locale a due porte sito lungo la Nazionale Appia a pesare sulla bilancia della giustizia e sul verdetto della Cassazione che poche settimane fa ha deciso di lasciare in cella l’ex brigadiere Lazzaro Cioffi, in attesa dell’inizio del maxi processo all’organizzazione che gestiva lo spaccio al Parco Verde, che lo vede tra gli indagati, insieme alla moglie Emilia D’Albenzio, la titolare del locale, e al ras del caivanese Pasquale Fucito.
Tra le motivazioni addotte dalla Suprema Corte, c’è proprio l’operazione finanziaria che portò alla cessione dell’osteria di Casagiove da “Marcolino” Cioffi alla famiglia Fucito, attraverso un nipote di “o’ Marziano” che, di fatto, sborsò il denaro necessario per rilevare l’attività. E proprio la cifra pattuita insospettì gli investigatori: Pasquale Fucito lo acquistò al triplo del suo valore reale. Una sproporzione dovuta – secondo quanto confermato dalla stessa Cassazione – alla volontà di gratificare Cioffi per le informazioni e la protezione concessa al suo cartello criminale.
“Vendendo al Fucito l’attività di ristorazione, intestata alla moglie ed alla figlia, a prezzo doppio rispetto al valore reale, consentendone la fittizia intestazione al nipote del Fucito – scrivono i magistrati – ha favorito il reinvestimento di capitali illeciti, derivanti dal narcotraffico”. La difesa di Cioffi ha fatto rilevare che gli eventuali benefici dell’operazione sarebbero ricaduti sul singolo Fucito, e non sul suo gruppo, ma la Suprema Corte ha respinto tale ipotesi confermando le misure restrittive nei confronti dell’ex brigadiere (congedatosi dall’Arma nel giugno scorso dopo 27 anni a Castello di Cisterna) e della consorte, la maddalonese Emilia D’Albenzio.