
Casal di Principe/San Cipriano d’Aversa. Fatture inesistenti per evadere le imposte: la Cassazione rende definitive quattro condanne
La Suprema Corte ha messo la parola fine a una lunga vicenda giudiziaria che coinvolge quattro imprenditori dell’Agro aversano, accusati di aver fatto ricorso a fatture per operazioni mai avvenute con l’obiettivo di ridurre il proprio carico fiscale. I giudici della Cassazione hanno dichiarato inammissibili i ricorsi dei responsabili, due dei quali residenti a Caserta, una donna di Casal di Principe e un uomo di San Cipriano d’Aversa.
Le impugnazioni erano state rivolte contro la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Firenze, che a sua volta aveva confermato il verdetto pronunciato nel 2019 dal Tribunale di Lucca.
L’indagine: una società “di carta” per mascherare operazioni fittizie
Le verifiche condotte dalla Guardia di Finanza hanno fatto emergere un sistema fondato sull’utilizzo di documenti contabili provenienti da un’azienda priva di reale operatività: nessuna sede effettiva, nessun dipendente, nessun mezzo o attività sul territorio. La società emittente risultava esistere solo formalmente e non avrebbe potuto fornire materiali o prestazioni.
Per questo le fatture relative agli anni 2013, 2014, 2015 e 2016 sono state considerate integralmente false e utilizzate esclusivamente per creare costi inesistenti e abbattere il reddito imponibile.
Gli avvocati della difesa avevano puntato su due aspetti: l’assenza di prove sulla consapevolezza del meccanismo illecito e la presunta prescrizione del reato. Tuttavia la Cassazione, con decisione firmata dal presidente Luca Ramacci e dalla relatrice Pia Verderosa, ha respinto ogni contestazione.
Secondo la Suprema Corte, i ricorsi erano privi di specificità, non indicavano reali violazioni di legge e miravano soltanto a ottenere una nuova lettura dei fatti, operazione che non rientra nei poteri del giudice di legittimità. I magistrati hanno inoltre richiamato la giurisprudenza consolidata che impedisce alla Cassazione di rivalutare il materiale probatorio se non emergono errori evidenti nella motivazione.
Il nodo prescrizione e la decisione finale
La difesa sosteneva che il reato più risalente, datato 10 settembre 2014, fosse ormai prescritto. I giudici hanno però confermato il calcolo della Corte d’Appello: ai dieci anni di prescrizione massima vanno aggiunti 231 giorni di sospensione richiesti dagli stessi imputati per ravvedimento operoso e definizione delle pendenze fiscali. Il termine è così slittato al 29 aprile 2025, oltre la data della sentenza di secondo grado.
Non solo: i giudici hanno ricordato che l’inammissibilità del ricorso impedisce di rilevare d’ufficio una eventuale prescrizione maturata successivamente.
Con la pronuncia definitiva, le condanne diventano irrevocabili e i quattro imputati dovranno anche sostenere le spese processuali e versare 3.000 euro ciascuno alla Cassa delle ammende. Una conclusione che conferma integralmente il quadro ricostruito dagli investigatori e chiude definitivamente il procedimento.

