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Narcotraffico, dichiarazioni spontanee e interrogatori in aula

 

Teverola. Gli imputati coinvolti nell’indagine sulla presunta rete di spaccio riconducibile al clan Picca hanno preso posizione in aula. Nel corso dell’ultima udienza del procedimento celebrato con rito abbreviato, sotto la guida del gup Baldassarre, diversi accusati hanno rilasciato dichiarazioni spontanee respingendo l’ipotesi di un’associazione strutturata finalizzata al traffico di droga.

 

Hanno scelto di intervenire personalmente Luigi Stellato, Raffaele Di Tella, Salvatore De Santis, Luigi Abategiovanni, Antonio Zaccariello, Giuseppe Lama, Marco Bosco, Fabio Buffardo e Michele Vinciguerra. Giovanni Picca, invece, ha richiesto l’interrogatorio, confrontandosi con le domande del pubblico ministero della Direzione Distrettuale Antimafia.

 

Al termine dell’udienza, il giudice ha rinviato il dibattimento alla prossima settimana, quando è prevista la requisitoria della Procura Antimafia. A difendere gli imputati c’è un collegio nutrito di legali: tra gli altri, Vincenzo Motti, Carmine D’Aniello, Gaetano Laiso, Mario Griffo, Cristina Mottola, Gianfranco Carbone, Eduardo Napolitano e Achille Golia.

 

L’indagine, coordinata dalla DDA, ha ricostruito il presunto tentativo di Aldo Picca – tornato in libertà dopo 19 anni trascorsi in carcere – di ricostruire una struttura criminale radicata nei territori di Teverola e Carinaro. Le attività investigative, svolte tra il 2021 e il 2023, si sono basate su intercettazioni telefoniche e ambientali, analisi dei tabulati, appostamenti e pedinamenti. Secondo gli inquirenti, il boss avrebbe voluto riaffermare il proprio controllo sulla zona, organizzando una rete dedita a traffici illeciti e pressioni estorsive.

 

Il gruppo, secondo l’accusa, avrebbe imposto il proprio dominio su commercianti, imprenditori, gestori di agenzie funebri e persino cittadini comuni, come un professore finito nel mirino per aver affittato un terreno dove il clan intendeva realizzare un inceneritore. L’attività criminale sarebbe stata sostenuta anche dalla disponibilità di armi, utilizzate come strumento intimidatorio o per risolvere conflitti interni al circuito malavitoso.

 

Oltre alle estorsioni, il presunto sodalizio avrebbe tratto profitti significativi dalla vendita di cocaina, hashish e marijuana, riuscendo – sempre secondo la ricostruzione degli inquirenti – a rifornire stabilmente i territori sotto il proprio controllo.

 

 

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