Santa Maria Capua Vetere. Ribaltpne al processo sulla mattanza in carcere in riferimento alla morte di un detenuto. Il 4 maggio 2020, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, si è verificato il decesso del detenuto Hakimi Lamine, avvenuto quasi un mese dopo una perquisizione straordinaria condotta il 6 aprile, durante la quale circa 300 agenti si resero protagonisti di episodi di violenza nei confronti dei detenuti del reparto Nilo.
Secondo quanto emerso nell’udienza del maxi-processo in corso nell’aula bunker del carcere, il decesso di Lamine è stato causato da “un’asfissia chimica dovuta alla simultanea assunzione di farmaci contenenti benzodiazepine, oppiacei, neurolettici e antiepilettici”. A dichiararlo sono stati i consulenti della Procura, il medico-legale Luca Lepore e il farmacologo Vito De Novellis, che hanno effettuato l’autopsia nel maggio del 2020.
Questa conclusione si scontra con l’accusa della Procura di Santa Maria Capua Vetere (pm Alessandro Milita, Alessandra Pinto e Daniela Pannone), secondo cui la morte di Hakimi sarebbe direttamente riconducibile alle percosse ricevute durante i fatti del 6 aprile. Questo elemento ha determinato la competenza della Corte d’Assise e il reato contestato a dodici imputati è “morte come conseguenza di torture”.
“L’autopsia – ha spiegato Lepore – non ha evidenziato traumi in grado di provocare il decesso, se non un’ecchimosi allo zigomo, compatibile con le convulsioni tipiche dell’asfissia, oltre a lesioni pregresse attribuibili ad atti di autolesionismo”.
Durante l’udienza è emerso che Hakimi assumeva da tempo un mix di farmaci per problematiche legate alla dipendenza da stupefacenti. De Novellis ha specificato che la concentrazione di principio attivo di tre farmaci rilevata nel corpo del detenuto dopo la morte era “compatibile con un’assunzione regolare, secondo la terapia prescritta”.
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