Caserta. Mimmo Borrelli, uno dei più fantasmogorici aedi contemporanei, arriva a Caserta – al Teatro Civico 14 – con Napucalisse, che sarà in scena sabato 2 e domenica 3 marzo (sabato ore 20.00 e domenica ore 18.00). Napucalisse è un racconto dolente e arrabbiato dell’uomo napoletano che, messo in condizioni di inferiorità e ghettizzazione sociale, non sentendosi parte dello Stato e della sua famiglia, è destinato ad esplodere, come una bomba che cammina, come il Vesuvio. Il monologo è un’invettiva che Borrelli tratteggia in forma di oratorio, con il ritmo della musica, eseguita dal vivo da Antonio Della Ragione, protagonista materica di una continua escandescenza, creatrice e distruttrice, senza speranza e, proprio per questo, inversa dichiarazione d’amore. Un vero è proprio capolavoro, che si costruisce come un incastro di suoni, assonanze, una sorta di rap dialettale, intenso e intriso di passione, amore e rabbia, di urla e lamento, di sacro e profano.
Info e prenotazioni a 0823 441399 oppure info@teatrocivico14.it. Costo del biglietto 12 euro (intero); 10 euro (ridotto) per under 30 e over 65 acquistabili anche sul sito www.teatrocivico14.it
Info e prenotazioni a 0823 441399 oppure info@teatrocivico14.it. Costo del biglietto 12 euro (intero); 10 euro (ridotto) per under 30 e over 65 acquistabili anche sul sito www.teatrocivico14.it
«Il Vesuvio è un vulcano dormiente, che sogna nel pericolo costante, ma destinato periodicamente svegliarsi – scrive Mimmo Borrelli nelle note d’autore, attore e regista. Dorme e veglia, prepara la veglia, prepara le casse di un funerale già programmato in tutti particolari, ma con l’ipocrisia della fertilità, della bellezza apparente della superficie dei paesaggi dell’abbondanza. Il Vesuvio è il doppio, come in teatro la sua visione è moltiplicata dai vettori sensoriali di chi lo interpreta e da chi lo ascolta. Il Vesuvio quando dorme accumula, accumula collera, violenza, indignazione, esplosione di morte che rinasce nella fertilità della terra e della vita.
L’allegoria è fin troppo chiara: l’uomo vesuviano, il napoletano messo in condizioni di inferiorità di ghettizzazione sociale, di ingiuria spesso razziale, nel non ritenersi accettato dallo Stato, nel non ritenersi Stato, nel ritenere lo Stato un occupatore, nel ritenere lo Stato la sua famiglia, è un individuo destinato ad esplodere, è una bomba che cammina, distruttiva autolesionista nell’arrangiarsi sempre. Questa esplosione è contagiosa, come la ramificazione a grafo ad albero di una nube ardente, colonna del mondo vorace che tutto travolge, al tutto dà pace.
«Napoli è una città in perenne guerra, ormai da secoli; è una città in perenne emergenza; in perenne sacco di avventori che usano questa emergenza per speculazioni milionarie; in perenne vergogna legata al filo dell’indifferenza, i cui testimoni inermi come spettatori ne scavalcano il ricordo, deragliando in qualcosa di sconosciuto, rispetto al quale è meglio essere indifferenti nel farsi i fatti propri, poiché si è indifesi; in perenne coscienza di tutto ciò senza reagire; in perenne pulcinellesca attesa di un padrone da servire, in cambio dell’elemosina di qualche beneficio; in perenne preghiera per il miracoloso avvento di un liberatore che non verrà mai; in perenne coscienza di essere un porto franco, comodo per le dissennate politiche di usurpatori del potere di stato; in perenne sopravvivenza gitana di un popolo che si è contraddetto poiché ormai fermo, in sofferenza ma con la morfina dell’inevitabile mancanza di speranza rispetto all’agognato, ma sempre più propagandato, ma lontano cambiamento – continua Borrelli.
Ma non c’è più tempo. La livella che abbatterà tutto si sta destando. Siamo allo scolo residuale della più laida Speranza, dove le leggi misantrope del più forte e la consequenziale collera del più debole ha fatto diventare questa città un ghetto all’insaputa di chi la abita. Napoli è il luogo ideale per perdere la speranza. Il nostro metronomo piroclastico lo sa. Lo sanno anche alcuni dei suoi abitanti che invocando le grazie delle sette madonne Vesuviane messe a guardia per placare con lui dialogano come in un sabba in cui ci si chiede se è giusto sopravvivere andare avanti in questa città o se sia più giusto che questa città compia il suo destino suicidandosi tra le fauci del suo tutore lavico. Viviamo un’illegalità estrema che non ci permette di alzare la voce. Nella rabbia di combattere sempre dalla parte del torto… Il problema è che al Sud non possiamo neanche combattere per la legalità, ma per una dignità nell’illegalità, ed è questo il dramma».