Casapesenna. L’arresto dell’ex primula rossa del clan dei Casalesi Michele Zagaria nel bunker di Casapesenna, dopo 15 anni latitanza, rappresenta l’epilogo di “una complessa attività di intelligence” che, però, “ha peccato in executivis, risultando nella sua ultima parte confusa, imprudente, a tratti imperita e persino inquietante”.
E’ duro il giudizio espresso dai giudici del Tribunale di Napoli Nord che analizzano le fasi precedenti e successive la cattura del boss nelle motivazioni della sentenza con la quale hanno condannato (a sei anni e sei mesi di reclusione) il poliziotto Oscar Vesevo per l’appropriazione di una pen drive trovata nella villa di Casapesenna dove c’era il bunker.
“Dimostrato è che l’operazione di Polizia – scrivono i giudici – si svolse fin dall’inizio nel bailamme per poi degenerare in un’operazione caotica e festante, quando si ebbe certezza della presenza del latitante”.
Un’operazione che “rischiò di fallire” visto che venne meno quasi subito “l’assoluta segretezza che doveva proteggerla” con l’arrivo la mattina del 7 dicembre, nei pressi della casa individuata, delle volanti della Polizia del Commissariato locale, “in alcun modo interessato dal dispositivo discusso nelle ore notturne antecedenti”.
Le motivazioni
“Chi avvisò i poliziotti che di lì a poco si sarebbe compiuto il rilevante atto di indagine non è stato accertato“, scrivono i giudici del Tribunale di Napoli Nord.
“Alcuni testimoni, il Morabito su tutti (all’epoca capo della Squadra Mobile di Caserta) – spiega il collegio – hanno descritto la totale confusione che regnava nell’abitazione, con una quarantina di persone presenti mentre ce ne sarebbero dovute essere 15-20″.
“Tanta fu la calca che Morabito, – viene evidenziato – che pure avrebbe dovuto scendere nel bunker, decise di non farlo (Vesevo scese tra i primi). Quando si ebbe certezza che Zagaria c’era, affluirono tante persone e arrivarono anche i magistrati della Dda, il cui ruolo nell’arresto del latitante fu essenzialmente di rappresentanza, non di certo operativo”.
E nel caos “tutti volevano portare con sé, se non altro come ricompensa per le numerose ore di lavoro impiegate, un pezzo, anche solo una memoria della cattura”.