Gomorra 5 ha di certo lasciato un’impronta che i lavori italiani a venire dovranno tenere in considerazione, sulla quale anzi potranno adagiarsi per cercare di sfondare nel mercato estero, prima a noi quasi totalmente recluso. In molti, però, hanno avuto da ridire sul finale dell’ultima stagione del racconto tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano.
Ma per quale ragione? Probabilmente, una regola del racconto seriale in tv è: dare allo spettatore ciò che lo spettatore vuole. Ecco, Genny Savastano e Ciro Di Marzio (in particolar modo il secondo) sono entrati nel cuore del pubblico con l’intensità propria delle grandi maschere. Avremmo dunque voluto vederli trionfare. O meglio, lo avrebbe voluto una parte di noi, quella che non tiene conto della morale.
La vita criminale dei protagonisti, calco di quella reale che ha operato negli scorsi decenni a Napoli e non solo, nell’emozione del racconto non rappresenterebbe per noi un ostacolo alla vittoria su tutti i fronti dei protagonisti malvagi. Ecco perché hanno fatto morire Genny e Ciro: per ricordarci che Gomorra non è soltanto intrattenimento, non è solo l’ottima regia, la squisita fotografia e la sceneggiatura originale.
Gomorra, pur nella veste imbellettata di un prodotto dalla diffusione massiva, resta la denuncia di un mondo troppo sporco per essere umano, che nessuno dovrebbe mai accettare. Come hanno ripetuto a più riprese, nelle ultime settimane, Salvatore Esposito e Marco D’Amore, nel racconto lo Stato c’è eccome. C’è la dura verità di una Napoli finita troppo spesso in mano alle bande. C’è però, stampato a chiare lettere, l’unico destino disponibile per chi sceglie quella vita: la galera o la morte.