PIGNATARO MAGGIORE. Domenica 5 dicembre scorso, presso la sala consiliare “R. Fonte”, in via Gramsci, Pignataro Maggiore, si è tenuta la presentazione del nuovo catalogo – guida del Museo della Civiltà Contadina e Artigiana, a cura di Fiorenzo Marino e Massimiliano Palmesano.
L’iniziativa ha riscontrato vasto successo e il pubblico ha gremito la sala, confermando il fascino che la cultura contadina continua a esercitare ancora oggi.
Abbiamo chiesto alcune impressioni in merito ai curatori dell’opera, che hanno acconsentito a rispondere alle nostre domande in questa intervista.
- È stato arduo il lavoro di ricognizione e raccolta dei materiali per il volume?
FM: Arduo ma anche molto stimolante. Tenga inoltre presente che il Museo nasce nel 1993 da una felice intuizione di Bartolo Fiorillo il quale, con il fondamentale apporto de professor Antonio Martone, mette mano alla sistemazione della collezione originaria, frutto di innumerevoli donazioni, poi via via arricchita. Quindi il nostro lavoro ha come punto di partenza il catalogo da loro elaborato nel 1997. In due mesi di lavoro, durante i quali siamo intervenuti sia dentro sia fuori il Museo, abbiamo cecato di “disegnare” un nuovo percorso, più articolato, più aperto, più moderno, ma quell’impianto originario resta fondamentale. Con l’ausilio, inoltre, del prezioso lavoro del fotografo Pietro Manno, abbiamo cercato di rendere fruibile, in una forma godibile e immediatamente comunicativa, lo spazio museale rappresentato.
- Immagino che nella vostra ricerca abbiate ascoltato anche la viva voce dei cittadini. Quanto hanno contribuito alla costruzione dell’opera?
MP: Il lavoro di ricerca “sul campo” è stato il vero protagonista del catalogo. Abbiamo chiaramente ascoltato i racconti di molte persone, indagato la complessa e multiforme nomenclatura degli attrezzi agricoli, cercato di capire il senso di proverbi e modi di dire nell’ottica di fornire un punto di vista in un certo senso “collettivo”. Un lavoro facilitato dal nostro background familiare e culturale. Abbiamo agito, insomma, da “antropologi nativi” cercando di costruire una narrazione dall’interno della civiltà contadina locale.
- La comunità di Pignataro Maggiore è attaccata alle proprie radici?
MP: La comunità di Pignataro è sempre stata attraversata da una particolare vitalità culturale. Negli ultimi decenni si era registrato un apparente disinteresse nei confronti delle tradizioni e della cultura popolare, ma il lavoro per il catalogo e i primi riscontri ricevuti in seguito alla pubblicazione hanno riconfermato il legame solido con la tradizione.
- Qual è il “vostro” mondo contadino: avete qualche aneddoto da raccontare?
MP: Per ragioni anagrafiche ho camminato sulle ceneri ancora fumanti della civiltà contadina, dissoltasi negli ultimi decenni del ‘900. Un mondo che però a Pignataro era ancora vivo e pulsante. Un bel ricordo che mi lega al mondo contadino è la grande fattoria dei miei bisnonni, con le mucche, le galline e i cavalli. Ricordo il bisnonno Giovanni che mi portava in giro sul calesse per le strade del paese e mi lasciava le redini della carrozza nelle strade poco trafficate!
FM: Il mondo contadino ci attraversa, direi che è fondante del nostro modo di essere e di relazionarci con lo spazio e la natura circostanti. Questo spiega anche la passione che ha guidato la nostra ricerca e la nostra voglia di risistemare un patrimonio, che se non rivitalizzato, rischia inevitabilmente di non avere più senso per le generazioni future. E questo, inoltre, spiega anche perché nel nostro “discorso” sul museo abbiamo dato risalto alla componente linguistica: al recupero cioè ragionato e corretto dei termini dialettali legati agli strumenti, agli attrezzi, alle tecniche di lavorazione e ai mestieri oggi non più esistenti.
- Antropologicamente, la cultura rurale pare l’unica capace di restituirci il senso di una verità che l’umanità pare abbia smarrito. Quanto è importante il mondo contadino oggi?
FM: Il mondo contadino non deve essere ridotto a mondo “idealizzato”, a luogo della nostalgia o, peggio ancora, a patrimonio esotico da saccheggiare acriticamente per operazioni di marketing. Perché sia in grado di restituirci, come dice lei, il senso di verità smarrito, è necessario un approccio serio, disincantato, scientifico. Quella cultura rurale – che parla di fatica, di sudore, di fame, di capacità di adattarsi all’ambiente e di rispettarlo, di frugalità, di valori essenziali – non va dispersa: va recuperata e valorizzata.