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Il figlio del boss: “Clan guadagna zero da usura. Nemmeno da parenti degli affiliati”

 

MARCIANISE. Un’attività in proprio. Magari gestita da uomini o donne con parentele eccellenti all’interno del clan ma di fatto non contemplata tra le entrate del sodalizio criminale.

E’ questo lo scenario che emerge dalle dichiarazioni di Camillo Belforte, figlio di Salvatore Belforte, cristallizzate nel dispositivo della sentenza con cui la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione ha scritto la parola fine per alcuni dei coinvolti nell’operazione  Dynasty che svelò un giro di strozzo che riguardava i Musone e gli Zarrillo.

Gli ermellini hanno annullato con rinvio a una sezione della Corte di Appello per Simmaco Zarrillo e Maddalena Delli Paoli, rispettivamente figlio e moglie del ras dei Belforte Francesco Zarrillo detto Sarocchia, in riferimento però a quattro capi di imputazione. La pena di 6 anni comminata ad entrambi e già abbassata rispetto al primo verdetto dovrà essere rideterminata, mentre per altri imputati (tra i quali Eremigio Musone) l’istanza è stata respinta.

Proprio la linea grigia tra attività usuraria e clan Belforte che si muove sul crinale di parentele eccellenti riferibili ad alcuni indagati è stata oggetto delle dichiarazioni di Camillo Belforte junior, figlio di Salvatore Belforte, che negli atti dell’inchiesta compare come pentito collaborando con i magistrati dopo il pentimento del padre, scelta sulla quale è stata operata poi una clamorosa retromarcia dalla Dda.

Soffermandoci sulle indagini Camillo Belforte – proprio in riferimento ai familiari di “Sarocchia” ed alla Delli Paoli -aveva rimarcato il carattere autonomo di quell’attività, senza ritorno economico per l’associazione, mentre le sentenze di merito non avrebbero dato conto delle concrete modalità del rapporto fra quell’attività e l’operatività del clan. Gli elementi indiziari indicati come in tal senso rilevanti – dichiarazioni dei collaboranti, intercettazioni, testimonianza della vittima di usura – non sono stati orientati, come evidenziato già nel ricorso, a dimostrare il concorso esterno.

L’inchiesta evidenziò l’esistenza di un’intensa attività usuraia perpetrata in modo sistematico e quotidiano attraverso continue richieste di denaro in danno delle numerose vittime. Le pressioni esercitate sulle persone offese, soggette a gravi e frequenti atti di intimidazione, le ponevano in una condizione di paura e totale soggezione. Sulla base dei dati raccolti, è stato quindi dettagliatamente ricostruito il “giro d’affari” e sono stati determinati gli interessi usurai applicati, che, in alcuni casi, hanno superato la soglia del 120%.