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Estorsioni ai politici, 2 in cella. L’ombra del clan: “A Caserta è quello che conta…”

Caserta. Sono state rese le motivazioni con cui la quinta sezione della Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, confermando la custodia cautelare in carcere per due indagati chiave dell’inchiesta sul racket dei manifesti e voto di scambio: si tratta del ras Giovanni Capone e di Antonio Merola, entrambi di Caserta.

Dopo il primo no del Riesame, il mese scorso anche la Cassazione ha ribadito la fondatezza dell’impianto accusatorio della Procura che aveva portato al loro arresto a febbraio. Capone era già detenuto, mentre Merola prima di questa inchiesta era incensurata. Si tratta della parte dell’inchiesta relativa all’estorsione ai danni di tre politici casertani: Francesco De Michele, Luigi Bosco e Lucrezia Cicia. In particolare il gruppo riconducibile a Capone avrebbe costretto, secondo l’accusa, i tre candidati alle elezioni del consiglio regionale della Campania ad affidare il servizio di affissione dei manifesti elettori alla cooperativa Clean Service di Mariagrazia Semonella.

Secondo l’accusa Giovanni Capone seppur detenuto era rimasto il referente del clan Belforte tanto che il fratello Agostino  aveva riferito che lui dal carcere aveva mandato un’imbasciata in cui aveva ricordato la necessità di ribadire il controllo del gruppo, imponendo ai candidati delle elezioni per il consiglio regionale di servirsi di una determinata cooperativa per l’attività di affissione dei manifesti della città di Caserta.

Stando a quanto emerso dalle intercettazioni, parte dei profitti erano destinati ai marcianisani e la stessa quota di 5mila euro era destinata a “Giannino”, appellativo per Giovanni Capone indicato nei dialoghi come “quello che conta a Caserta”. I politici hanno negato di essere stati minacciati, ma confermato di essersi rivolti alla ditta. Merola, invece, era finito nei guai per aver accettato 7mila euro da un politico indagato, Carbone, per procurargli i voti.