Marcianise. La Cassazione ha sbarrato definitivamente la strada al percorso da pentito intrapreso da Pasquale Di Giovanni. In queste ore sono state depositate le motivazioni con cui la Prima Sezione Penale della Suprema Corte, un mese e mezzo fa, ha rigettato il ricorso presentato dal 61enne imprenditore del settore rifiuti dopo che il tribunale di sorveglianza aveva rigettato la richiesta di riconoscere la collaborazione prestata alla giustizia per ottenere i benefici decisi per altri esponenti del clan in alcuni procedimenti.
Dopo una deposizione a carico di Angelo Grillo, infatti, con provvisoria ammissione al programma di protezione, Di Giovanni aveva negato i suoi rapporti con il clan Belforte e l’intestazione fiduciaria dei beni della cosca. Secondo le indagini Di Giovanni, imprenditore del settore dello smaltimento dei rifiuti, corrispondeva una somma fissa al clan Belforte dopo essersi aggiudicato la gestione del depuratore di Marcianise; ma il cognato del capoclan Salvatore Belforte aveva scoperto che egli smaltiva i fanghi del depuratore gettandoli nella pubblica fognatura anziché trattarli a norma di legge: da qui era giunta la pretesa di quegli di entrare nella gestione illegale dei rifiuti, poiché particolarmente lucrosa, ed erano sorti rapporti con altri imprenditori vicini al clan; nell’ambito di questi contatti egli aveva conosciuto appunto Angelo Grillo.
Secondo il Tribunale di Sorveglianza, però, le informazioni rese erano state di spessore modesto rispetto a quanto avevano riferito pentiti del calibro di Michele Froncillo, Bruno Buttone e Salvatore Belforte, che avevano riferito i dettagli degli accordi con Grillo, concludendo che il contributo offerto da Di Giovanni era poca cosa e non poteva valere il riconoscimento della collaborazione con la giustizia, pur venendo considerato come testimone di giustizia.
Il Tribunale di Sorveglianza, facendo riferimento alla vicenda processuale che ha coinvolto Di Giovanni, ha evidenziato i punti essenziali per i quali ha ritenuto come non congrua l’offerta di collaborazione con la giustizia pervenuta. Secondo la Cassazione, che ribadito il no, condannandolo anche al pagamento delle spese processuali, non avrebbe fornito un “aiuto concreto” alle autorità col suo contributo di informazioni.