Caserta. Un impegno costante. Dal manifesto col faccione del candidato che doveva campeggiare sui rivali fino all’attimo in cui materialmente la matita consegnata al seggio avrebbe disegnato la X “al posto giusto”. Per gli uomini del clan Belforte quel risultato promesso ai candidati andava blindato e conseguito ad ogni costo.
E’ questo lo scenario evidenziato all’interno dell’ordinanza di custodia cautelare notificata dieci giorni fa a 17 persone. In attesa che il Riesame si pronunci definitivamente sulle diverse posizioni e sulle distinzioni già emerse negli interrogatori tra quanti pagavano per un servizio e quanti lo imponevano, le pagine del provvedimento siglate dal gip Piccirillo fanno emergere un clima piuttosto turbolento intorno a quelle elezioni regionali del 2015.
Tra i dialoghi più interessanti captati dagli investigatori nel corso dell’inchiesta c’è quello che coinvolge Vincenzo Rea, l’ex pugile finito nei guai e divenuto uno dei punti di riferimento per il gruppo retto da Capone, durante i giorni che precedevano il voto. Molti degli uomini coi quali si interfaccia di danno da fare in ogni modo possibile per racimolare consensi, non solo tra parenti e conoscenti. Alcuni anziani vengono portati quasi di forza al seggio e per garantire che nessuno “sbagli”, a qualcuno viene detto di fotografare la scheda.
Finiti i vecchietti del rione e non, gli indagati passano in rassegna gli altri possibili elettori fino a quando uno non chiede: “Vincè, ma pure i voti degli zingari sono buoni?”. “Come no – replica Rea – basta che tengono la cittadinanza italiana”. E il giro riparte.