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“Qui ho paura”: rapporti con tre reclusi e tensioni, i retroscena della detenzione sarda del boss

Marcianise. Bancali, Sassari. Un fortino di cemento e inferriate con il nulla intorno. E’ questo l’ultimo domicilio del boss Domenico Belforte, capo indiscusso dei Mazzacane negli anni Novanta, che allo scoccare fatidico del 2019 alle porte, concluderà il suo ventesimo anno ininterrotto di detenzione.

 

Gli ultimi due di questo periodo, li ha trascorsi nel penitenziario di massima sicurezza sardo, dove era stato trasferito da L’Aquila, dopo che nella sua famiglia qualcuno, a partire dal fratello Salvatore aveva deciso di intraprendere un percorso (poi revocato) di collaborazione con la giustizia. Mimì, suo fratello maggiore, non aveva mai dato seguito concreto a quei propositi pur dichiarandosi talune volte disponibile e autoaccusandosi di alcuni delitti: quello dei coniugi Breda-Letizia, confessato a inizio dicembre in una lettera, è solo l’ultimo in ordine di tempo.

 

Le paure del capoclan

Belforte però da Bancali voleva andare via già da tempo: ovviamente con un trasferimento che però i giudici gli hanno negato. Il boss marcianisano ha infatti fatto trapelare di temere per la propria incolumità in caso di permanenza in quel carcere, anche se nulla di concreto in tal senso è stato portato all’attenzione dei magistrati.  Il tribunale di Sassari aveva già respinto il ricorso presentato da Domenico Belforte, sottoposto al regime del 41bis, dopo che il magistrato di sorveglianza aveva rigettato la richiesta di trasferimento in un altro istituto penitenziario.

 

Rapporti con tre detenuti

Il capoclan aveva evidenziato una situazione di pericolo per la propria incolumità all’interno del carcere sardo: nell’istanza presentata autonomamente aveva che il provvedimento si basava solo su informazioni della direzione dell’istituto. Belforte era stato trasferito a Sassari proprio dopo la collaborazione intrapresa da alcuni familiari e sulla sua diponibilità con la Dda. Da allora convive in un gruppo di socialità con altre tre persone. I pericoli non sono stati suffragati da elementi concreti, come si evidenzia dalle motivazioni della sentenza della Settima Sezione Penale della Corte di Cassazione, rese note in queste ore.