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Pulizia etnica ordinata dai Casalesi, la sentenza. Due condanne definitive

Casal di Principe/San Marcellino. Una pulizia etnica portata avanti per nome e per conto del sanguinario boss dei Casalesi Giuseppe Setola. Un mese prima della strage di San Gennaro a Castel Volturno, il feroce killer dei Bidognetti aveva già avviato quel folle piano di eliminazione degli stranieri, partendo dagli albanesi. A cadere sotto i colpi degli uomini di Setola fu Doda Ramis, nell’agosto del 2008 a San Marcellino. Per quel delitto ora è diventata definitiva la condanna a 30 anni di reclusione per Salvatore Santoro, mentre per Giovanni Bartolucci (già assolto in primo grado dall’accusa di omicidio), è stata confermata quella a 12 anni per associazione per delinquere di stampo mafioso. Santoro di Trentola Ducenta, 30 anni ora e appena 20enne all’epoca del delitto, e Bartolucci di San Marcellino, adesso 37enne, sono difesi dagli avvocati Franco Liguori e Emilio Martino.

Bartolucci (estraneo all’omicidio) era il titolare del bar fuori dal quale Ramis venne fermata proprio da Santoro che in quel delitto ha avuto il ruolo di specchiettista, come ha confermato la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione in una sentenza emessa nei mesi scorsi, ma le cui motivazioni sono ora state rese note. La Suprema Corte ha respinto i ricorsi sia di Santoro (per l’omicidio) che di Bartolucci (per 416bis) condannandoli alle spese processuali.

L’omicidio era stato commesso da Setola con metodo mafioso: Guerra e Santoro erano per l’accusa i basisti e avrebbero atteso la vittima all’esterno del bar di Bartolucci, intrattenendo Doda e avvisando gli esecutori. Santoro avrebbe osservato l’eventuale arrivo di forze dell’ordine fino a quando Setola e Letizia non sarebbero giunti per uccidere sul posto l’albanese.

I pentiti e l’affondo della difesa

La difesa di Santoro aveva puntato sull’inattendibilità dei pentiti (in particolare Guerra e Barone): secondo la loro ricostruzione Setola aveva dato mandato di uccidere quanti più albanesi possibile a Guerra, perchè gli albanesi con furti e estorsioni davano fastidio nell’agro aversano. L’omicidio di Doda Ramis era stato deciso dopo due cavalli di ritorno ai danni di persone vicine al clan. Barone in particolare avevano detto di aver accompagnato Santoro nel covo di Setola e di averlo visto lavarsi mani e faccia con urina e Coca Cola: non aveva sparato ma era molto vicino, secondo il pentito, a chi lo aveva fatto.

Spagnuolo, invece, aveva confermato dinamica ma modificato i ruoli: per lui erano stati Guerra e Santoro (e non Guerra e Bartolucci come emerso erroneamente in un primo momento) ad avvistare Doda Ramis ed ad avvisare il gruppo Setola appostato nell’appartamento di Trentola Ducenta. Nell’appello la difesa di Bartolucci aveva sostenuto la mancanza dei presupposti della condanna per associazione per delinquere di stampo mafioso, poichè le accuse dei collaboratori erano inattendibili e mancavano di riscontri.

Oltre a quelle di Guerra, Barone e Spagnuolo c’erano anche le dichiarazioni di Luigi Tartarone e Emilio Di Caterino. In particolare questi due avevano indicato Bartolucci come persona di fiducia, prima di Alfiero e poi di Setola, al punto da recapitare pizzini in cambio di uno stipendio. Da autista a factoctum: una disponibilità illimitata che gli è costata una condanna pesante pur non avendo avuto un ruolo nel delitto.