Scommesse, così il “network dei Totem” alimentava le casse degli Schiavone

CASAL DI PRINCIPE. Un’inchiesta complessa, fatta di intercettazioni, pedinamenti e dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ha permesso agli inquirenti di Salerno di ricostruire un meccanismo di gioco d’azzardo clandestino capace di muovere oltre 25 milioni di euro. Non si trattava di una semplice rete parallela al sistema delle scommesse autorizzate: gli investigatori hanno individuato una struttura stabile, organizzata e capace di garantire una quota degli incassi al clan dei Casalesi, in particolare all’area riconducibile alla storica famiglia Schiavone.

Al centro del progetto illecito, secondo gli investigatori, c’era un gruppo salernitano guidato – secondo l’accusa – da Domenico Chiavazzo, Paolo Memoli e Giovanni Petruzzellis. Sono loro, secondo la Procura, gli architetti del modello che permetteva di offrire gioco online fuori da ogni controllo. Le piattaforme non erano accessibili da casa o da computer privati, ma attraverso Totem, veri e propri terminali elettronici installati in bar, sale giochi, tabaccherie e attività commerciali sparse in tutta Italia. Questi apparecchi, apparentemente simili ai dispositivi autorizzati, convogliavano in realtà le giocate verso una piattaforma digitale gestita dall’organizzazione.

Il legame con i Casalesi

Secondo l’impianto accusatorio, la forza del sistema era proprio la collaborazione con il clan casertano: una società collegata ai Casalesi avrebbe fornito parte dei dispositivi destinati ai locali dell’area di Caserta. In cambio, il gruppo criminale avrebbe ricevuto una fetta garantita dei profitti. Un patto d’affari che permetteva agli imprenditori del gioco illegale di estendere rapidamente la rete e, al contempo, al clan di generare liquidità costante senza esporsi direttamente.

Il meccanismo dei guadagni e il riciclaggio

Il denaro raccolto dai Totem veniva riversato all’organizzazione in due modi: contanti direttamente consegnati dagli esercenti oppure versamenti su carte ricaricabili, un sistema che consentiva movimenti rapidi e difficilmente tracciabili.
Una volta incassati, i soldi seguivano una seconda fase: venivano smistati attraverso società cartiere, intestate a prestanome, utili solo a “ripulire” i proventi e reimmetterli nell’economia legale. Secondo gli inquirenti, parte delle somme sarebbe stata utilizzata anche per investimenti immobiliari.

Una rete nazionale costruita totem dopo totem

La parte più significativa dell’indagine è la capacità del gruppo di costruire un circuito quasi industriale: decine di dispositivi sparsi in più regioni, un server centrale che raccoglieva le giocate e un sistema piramidale che distribuiva i profitti tra gestori, intermediari, organizzatori e – secondo gli inquirenti – il clan. Un modello accuratamente progettato per eludere i controlli dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e per alimentare un flusso continuo di denaro fuori da ogni regola.

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