REGIONALE. Un’intera economia parallela, costruita sulle speranze di chi cercava un’occasione per rifarsi una vita. In molti, soprattutto stranieri, avevano raccolto i propri risparmi, fino a diecimila euro, per pagare quello che veniva spacciato come un regolare contratto di lavoro in Italia. Non volevano altro che lavorare onestamente: “Non è solo per i documenti, voglio un futuro dignitoso”. Ma dietro le rassicurazioni, spesso si nascondeva il nulla.
L’inchiesta che ha portato a numerosi arresti nel Vesuviano ha messo in luce un meccanismo ben collaudato, fatto di false assunzioni, traffici illeciti e vere e proprie estorsioni. Decisive, ancora una volta, le intercettazioni ambientali e telefoniche, raccolte durante le indagini coordinate dalla Procura.
In uno dei passaggi più significativi, si sente l’avvocato Vincenzo Sangiovanni rispondere con noncuranza alla domanda del complice Antonio Noranna, che chiedeva se fosse necessario assumere davvero uno dei migranti: “Ne parliamo dopo…”. L’interesse era solo uno: incassare soldi, senza garantire alcuna posizione lavorativa.
In un’altra conversazione, lo stesso Sangiovanni viene intercettato mentre detta le regole del gioco: “Mi hai dato 200mila euro… dovevano essere 600mila… vogliono entrare? Devono pagare. Altrimenti non muovo un dito”. Una mentalità improntata al profitto, senza scrupoli né rispetto per la condizione di chi stava dall’altra parte.
Una rete criminale ben organizzata
L’indagine, guidata dal pm Visone e dal procuratore aggiunto Del Prete, ha individuato diversi ruoli tra gli indagati: chi gestiva i contatti, chi caricava le pratiche online, chi sfruttava le falle del sistema informatico ministeriale. In particolare, durante i cosiddetti “click day”, alcuni membri della rete si servivano di computer potenti e connessioni ad alta velocità per caricare rapidamente le richieste e superare la concorrenza. Lo ha confermato anche il procuratore Nicola Gratteri: la tecnologia era parte integrante dell’ingranaggio truccato.
I “cliccatori” e gli “inseritori” erano figure strategiche, capaci di manipolare la piattaforma telematica del Ministero dell’Interno, dove si formalizzano le richieste per lavoratori extracomunitari. Un’attività apparentemente tecnica, che in realtà alimentava un business da centinaia di migliaia di euro.
Funzionari pubblici e connessioni con i clan
Tra le persone coinvolte anche Mario Nippoli, agente penitenziario in servizio a Poggioreale, posto ai domiciliari. Inseriva pratiche usando credenziali d’accesso procurate in modo illecito, e si vantava apertamente delle sue “operazioni”: “Tutto a posto, 624, 625 bis…”, alludendo ai reati di furto e furto con destrezza.
Le indagini si sono sviluppate anche attorno a un altro poliziotto, attivo nell’area vesuviana e ritenuto legato al clan Fabbrocino. Il tutto, sotto la regia occulta di tre avvocati, che avrebbero trasformato la procedura di regolarizzazione dei migranti in una macchina per fare soldi, alimentata dal ricatto e dalla disperazione.