Ras dello spaccio incastrato dalla Cassazione: “Niente domiciliari, è il capo”

 

SAN FELICE A CANCELLO. Ras Morgillo senza scampo dopo il verdetto della Suprema Corte. Sono state depositate quattro giorni fa le motivazioni con cui la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso presentato per chiedere la revoca della misura cautelare nei confronti di Gennaro Morgillo, il giovane ras ritenuto a capo dello spaccio.

L’istanza, presentata dagli avvocati Giuseppe Stellato e Vittorio Fucci, era stata discussa lo scorso 18 novembre e respinta perchè dichiarata inammissibile con tanto di pagamento delle spese processuali e della somma di tremila euro da parte del 33enne.

I legali si erano appellati contro il provvedimento del tribunale partenopeo dell’aprile scorso che confermava la misura cautelare del carcere. In primo grado il 33enne Morgillo era stato condannato con rito abbreviato a 13 anni e 8 mesi di reclusione in quanto riconosciuto capo, promotore ed organizzatore della gang dedita allo spaccio nella Valle di Suessola, nonché responsabile di numerosi episodi di spaccio di sostanze stupefacenti e della detenzione e porto di armi comuni da sparo (di cui un fucile provento di furto) e delle relative munizioni. Secondo il giudice dell’appello cautelare, non era emerso nessun elemento nuovo rispetto a quelli già valutati in sede di riesame, idoneo ad incidere sulle esigenze cautelari, mentre la severa pena irrogata era proporzionata alla durata della custodia cautelare sofferta.

Alla luce del suo profilo, la Suprema Corte non ha ritenuto di discostarsi dai precedenti responsi riconoscendo in Morgillo il vertice di un’associazione che assicurava la fornitura di stupefacente a vantaggio di tossicodipendenti; aveva la disponibilità di armi a conferma del suo ruolo apicale
e di controllo anche armato dell’attività.

Erano stati chiesti i domiciliari

Così la Suprema Corte ha respinto la richiesta degli arresti domiciliari: “Quanto poi alla proporzionalità della misura in atto, il Tribunale ha rilevato che essa era da ritenersi proporzionata alla pena irrogata, tenuto conto della durata della custodia cautelare già sofferta (circa un anno). A fronte di tale quadro, il Tribunale ha ritenuto, con motivazione congrua e non viziata, che era inidonea la misura domiciliare anche assistita dal presidio elettronico, in considerazione del tipo di attività illecita svolta dal ricorrente e della personalità trasgressiva del medesimo, dimostrata dalle evidenze in atti.

Il ricorrente si è limitato a ribadire le argomentazioni spese in appello, non confrontandosi – se non apparentemente – con la motivazione dell’ordinanza impugnata e allegando viepiù argomenti fattuali e manifestamente infondati (quanto ai fatti accertati in sede di merito).” si legge nelle motivazioni depositate dalla Sesta Sezione Penale della Suprema Corte.

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