Mattanza in carcere, i cappellani: capire origine della violenza

Santa Maria Capua Vetere. “Oltre a chiedere agli organi preposti che vengano chiarite le responsabilità di tutte le persone coinvolte e che si faccia il possibile perché tutto ciò non avvenga più, la comunità ecclesiale è chiamata a interrogarsi sulle cause che possono aver condotto a tale efferatezza. La violenza documentata nei filmati ci invita a considerare – oltre alla denuncia delle dinamiche di potere attuate da una piccola parte degli agenti penitenziari – il limite culturale, purtroppo, ampiamente diffuso nella società”.

 

E’ la presa di posizione diffusa dalla pastorale carceraria della Diocesi di Napoli che riunisce cappellani e volontari delle carceri di Napoli in merito ai fatti di Santa Maria Capua Vetere.

 

“L’incontro del volontariato carcerario della diocesi di Napoli con il vescovo don Mimmo Battaglia e i cappellani delle carceri – si legge nella nota – ci ha portato ad una seria riflessione sui fatti avvenuti nella Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere. Nella consapevolezza che non è possibile tacere davanti a inconcepibili atti degenerati in violenza ingiustificata ai danni di detenuti, i volontari e i cappellani, uniti al proprio Vescovo, esprimono ferma condanna di ogni forma di abuso di potere. Infatti – si legge – assicurare l’esecuzione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale (Legge n. 395 del 15.12.1990) non può legittimare in alcun modo l’uso sproporzionato della forza e l’offesa della dignità umana”. “La pena – sostengono i cappellani e i volontari delle carceri – dovrebbe essere reale possibilità di riscatto sociale per recuperare il senso di umanità perduto e offeso. Tante donne e tanti uomini sono riusciti a ripercorrere la propria vita al contrario, riscattandosi, imparando non solo a chiedere perdono ma anche a perdonarsi. Le lacrime svelano l’umanità, il dolore ridona fattezze umane a chi appare solo una bestia. Ma ci dev’essere accanto qualcuno che raccolga quelle lacrime e condivida quel dolore. Il male va sempre segnalato e sanzionato, non bisogna tacere o voltarsi dall’altra parte, ma bisogna pensare che la giustizia riguarda tutti, non solo lo Stato, e ci riguarda nel senso che dobbiamo continuamente ricostruire le basi morali dentro di noi e nel rapporto con gli altri. Allo stesso tempo, anche lo stress psicologico cui sono sottoposti gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria – spesso chiamati a svolgere le loro mansioni in organici ridotti e in strutture detentive sovraffollate – diventa un monito per tutti noi che operiamo nella pastorale carceraria”.

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