CASTEL VOLTURNO/SANTA MARIA CAPUA VETERE. “Mi sono rivisto, ero quello con la tuta grigia e la maglia nera picchiato sulla scala, che cade e perde anche una scarpa mentre viene fatto salire a forza”. Dopo il sussulto d’ansia per gli arresti della scorsa settimana, Salvatore Quaranta ha rivissuto letteralmente l’incubo del pestaggio subito il 6 aprile del 2020 al carcere di Santa Maria Capua Vetere, attraverso le immagini diffuse dagli organi di stampa. Lui, venne scarcerato poco dopo quelle violenze e appena gli fu possibile si recò a denunciare l’accaduto.
“Nonostante fossi disperato e piangessi, – racconta Quaranta in un’intervista all’Ansa – l’agente continuava a darmi schiaffi. Poi ho preso altre botte mentre continuano a salire. Mi ripetevano: ‘da oggi comandiamo noi. Hai capito? Sono stati momenti terribili, assurdi, che ancora oggi faccio fatica a credere che siano successi”. Quaranta, originario di Castel Volturno, è stato tra i pochi dei circa 300 detenuti del Reparto Nilo pestati ad aver denunciato quasi subito i fatti alle autorità; qualche giorno dopo le violenze, il 10 aprile fu infatti scarcerato e posto ai domiciliari a Castel Volturno, dove parlò con i carabinieri raccontando gli abusi patiti in carcere. Di Salvatore, altri detenuti hanno raccontato che quel giorno le prese “più degli altri”.
Salvatore Quaranta venne scarcerato il 10 aprile e messo ai domiciliari a Castel Volturno dove raccontò ai carabinieri gli abusi patiti in carcere. Di Salvatore, altri detenuti hanno raccontato che quel giorno le prese “più degli altri”. Le immagini ritraggono Salvatore mentre sale le scale, ovvero mentre fa il percorso a ritroso, ma ad inizio perquisizione era stato fatto uscire di cella e quelle scale le aveva scese sempre tra le botte. Ora l’ex detenuto del carcere di Santa Maria Capua vorrebbe solo che il processo iniziasse prima possibile.
“Gli agenti che hanno commesso questi atti devono pagare”. Quaranta, nel corso del suo interrogatorio reso alla Procura di Santa Maria Capua Vetere il 20 maggio 2020, parlò anche del detenuto algerino Hakimi Lamine, morto il 5 maggio 2020 suicida a causa di un mix di farmaci, dopo essere stato tenuto illegalmente per quasi un mese in isolamento in seguito ai fatti del 6 aprile; la Procura aveva ipotizzato una responsabilità degli agenti che lo avevano picchiato, contestando il reato di morte come conseguenza di un altro reato (le torture), ma il Gip non ha condiviso l’impostazione.
“Ho sentito che un ragazzo di origini algerine – racconta Salvatore – circa un mese e mezzo prima dei giorni 5 e 6 aprile, era stato picchiato. Ricordo che questo ragazzo aveva problemi psichici. Ricordo che si chiamava Lamine. Lui stava al padiglione Tevere ed è stato portato al Nilo, per poco tempo anche nella nostra stanza, per una decina di giorni. So che questo ragazzo prendeva tanti medicinali, e che dormiva sempre. Lamine diceva che non voleva prendere gli psicofarmaci, e cercavo di dissuaderlo, infatti qualche volta li buttava. Ricordo che gli infermieri gli davano i medicinali e non gli dicevano niente sulla somministrazione. Non so se Lamine fosse stato picchiato altre volte nella stanza zero”.
IL VIDEO