“Se fossi in lui confesserei”: 8 anni tra depistaggi e mezze frasi prima della condanna

 

SANTA MARIA CAPUA VETERE/SAN TAMMARO. Pena a 27 anni di carcere confermata anche in appello per Emilio Lavoretano, imputato per l’omicidio della moglie Katia Tondi, la 31enne uccisa il 20 luglio del 2013 nella sua abitazione di San Tammaro, nel Casertano. La Corte d’Assise d’appello di Napoli ha infatti accolto la richiesta del sostituto procuratore generale di Napoli Raffaele Marino, che il 16 aprile scorso aveva chiesto, al termine delle requisitoria, di confermare la condanna a 27 anni che Lavoretano aveva ricevuto in primo grado dalla Corte d’Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere (gennaio 2020).

 

Marino aveva detto, ritenendo schiaccianti le prove raccolte, che “se io fossi in Lavoretano, confesserei”. Anche Gianluca Giordano, avvocato di parte civile che assiste padre, madre e fratello di Katia, durante l’arringa aveva affermato senza giri di parole che “Katia Tondi non è stata uccisa né da un serial killer né in seguito ad una rapina, ma dal marito Emilio Lavoretano, che ha sempre cercato di sviare le indagini”.

 

A nulla sono valsi i tentativi dei difensori dell’imputato, Carlo De Stavola e Elisabetta Carfora, che hanno cercato di smontare soprattutto le indagini realizzate dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere (sostituto Domenico Musto) e dalla Squadra Mobile di Caserta, definendole “lacunose e frammentarie”, e parlando di “accertamenti tecnici mai effettuati e di un movente inesistente”.

 

Alla fine il collegio d’appello presieduto da Maria Alaia ha dato credito a quanto emerso durante i due gradi di dibattimento, ovvero che Katia fu uccisa tra le 18 e le 19, ovvero quando Lavoretano era in casa; determinante per fissare l’orario, circostanza fondamentale su cui si è giocata “la partita” tra accusa e difesa, la consulenza medico-legale realizzata in primo grado dall’ex colonnello del Ris Luciano Garofano. Lavoretano si è sempre professato innocente, e già la sera del delitto provò ad accreditare un alibi, presentando uno scontrino della spesa per dimostrare che quando era stata uccisa la moglie lui era al supermercato, quindi ventilò l’ipotesi di una rapina e poi accusò altre persone. Ma niente, i giudici di primo e secondo grado non gli hanno creduto.

 

Per quanto riguarda il movente, in mancanza di confessione sa parte di Lavoretano, sembra probabile che sia da ricercare nel tentativo di Katia di ribellarsi ad un marito che la teneva isolata, che non la faceva quasi mai uscire e non le garantiva alcuna indipendenza economica; la ragazza, è emerso, non frequentava nessuno. Lavoretano è in carcere dal gennaio 2020, ovvero dai giorni successivi alla sentenza di primo grado.

 

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