Caserta. “Chi può metta, chi non può prenda”. Una frase che sta facendo il giro dell’Italia e grazie al web il giro del mondo. La frase è del medico Giuseppe Moscati, uomo che dedicò tutta la sua vita ai bisognosi senza far distinzione di sesso o razze, oggi Santo, le cui spoglie riposano a Napoli nella Chiesa del Gesù Nuovo. Il suo Operato è considerato un tema attualissimo soprattutto in questo che stiamo vivendo. Nel 1921 San Giuseppe Moscati Incotra Giacomino Gaglione e gli annuncia che la sua malattia non è per la morte ma per la santità. Due uomini a stretto contatto fra loro che nel tempo si sono incrociati e grazie a questa intervista capiremo come sono in stretto contatto fra loro.
Se prendiamo un dizionario e cerchiamo la parola “ solidarietà “,troveremo questa spiegazione: la solidarietà è un sentimento di fratellanza, di aiuto materiale e morale tra le persone di un gruppo, di una collettività. Questa parola oggi è usata molto spesso perché in varie parti del mondo c’è bisogno di solidarietà per migliorare le condizioni di vita dei poveri, dei malati e dei più deboli.
C’è una persona, un uomo, in particolare il parroco di San Benedetto Abate della comunità di Caserta: “Don Antonio di Nardo” che non ha mai abbandonato i più deboli e dona loro non solo una parola di conforto, un sorriso, o un abbraccio, ma consegna alle loro porte beni di prima necessità come documentato da precedenti interviste in collaborazione anche con persone conosciutissime nella provincia come il pizzaiolo di Caiazzo Francesco Pepe, che ha dichiarato: “Quando ho dovuto chiudere il mio ristorante che ho realizzato con tanti sacrifici e ho dovuto a malincuore mettere in cassa integrazione i miei dipendenti ho deciso di mettere la mia pizzeria a disposizione dei più bisognosi e di preparare pizze e biscotti per i poveri e gli anziani in difficoltà, organizzando una raccolta fondi per l’ospedale di Caserta, il tutto grazie alla collaborazione di persone che dedicano il loro tempo ai meno fortunati come: Don Antonio di Nardo”
Pastore della comunità parrocchiale di San Benedetto Abbate in provincia in Caserta, “Don Antonio di Nardo” tiene a cuore molto il suo gregge, i suoi fedeli e non solo offre il suo tempo libero ai più poveri e i meno fortunati, proprio come faceva Cristo Gesù ma arriva al limite delle forze pur di vedere spuntare un sorriso dove c’era una lacrima, portando loro un pasto caldo o una parola di conforto e il calore di un abbraccio. Scendono in campo con Don Antonio i volontari dell’associazione “L’angelo degli Ultimi” con la presidente Antonietta D’Abenzio che uniti dallo stesso spirito e la stessa forza donano conforto e un pasto caldo alle persone disagiate. Socio dell’associazione è il famoso pizzaiolo Franco Pepe che ogni giorno mette la sua esperienza cucinando pizze e biscotti distribuendoli per la città di Caserta grazie alla sua associazione.
Oggi ho avuto l’onore di parlare con Don Antonio e di parlare di due argomenti molto particolari che lo vedono in prima linea: “ La Solidarietà e la Sofferenza”.
Buonasera Imma piacere mio, vivo questi giorni di covid19 dando un senso al tempo che stiamo vivendo, in questo periodo di emergenza di fronte ad una pandemia che si sta dilagando a macchia d’olio. Vivo il tempo, non come lo scorrere delle ore, ma nel suo essere essenziale. Stiamo vivendo le ore essenziali della nostra giornata, non riempendo il tempo. Ma vivendo il tempo. Questo è un tempo di ristrettezza ma anche di grande sofferenza, una sofferenza dell’animo interiore, più che del corpo, perché quando la sofferenza dell’animo si riflette sul corpo poi comincia un senso di povertà, povertà estrema non solo interiore ma anche esteriore. La pandemia non bisogna viverla in modo passivo, ma dobbiamo trarne il meglio da essa. In questi giorni le parole d’ordine del mio vivere quotidiano sono due “l’accoglienza e l’ascolto”. Sono molte le persone che chiedono di essere ascoltate. Questo ha evidenziato in me il mio paniere uguale a quello di San Giuseppe Moscati di dare e ricevere.
La solidarietà e la sofferenza fanno parte della persona umana. La parola persona che dal greco “Prosopon” che indica il volto dell’individuo. Ciò vuol dire guardare in faccia all’uomo che ti sta di fronte e non attendere che l’altro si sieda, ma intuire la sua esigenza. La persona che incontri è sempre un libro aperto. Una persona non è mai pensata mai come un’assoluta individualità, ma è pensata come una cellula di un corpo, dove quando tu dai un qualcosa ad un soggetto, lo stesso poi impara a donare. E’ una solidarietà che nasce a livello naturale. Così si evita una visione individualistica della persona.
Per me la solidarietà è una parola, un principio di alto valore. Conferisce un rapporto con la persona umana, è alla base con il cammino degli uomini che deve portare verso una convinta unità. Non dimentichiamo che stesso la nostra costituzione parla di solidarietà. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Anche la nostra costituzione parla della solidarietà. Diritti che fanno crescere gli uomini perché la solidarietà fa nascere nuove relazioni fra gli uomini e le trasforma in forme etiche. Una solidarietà sociale che fa nascere e crescere la persona umana. Qui non si parla di virtù cristiana ma di virtù umana aperta a tutti gli uomini, capace di far crescere l’uomo moralmente e interiormente. Parliamo di un habitus, un rango di virtù non solo morale ma anche sociale. Un valore di principio che già inzito nel cuore umano e al di là se sono cristiano o non lo sono, un rango di virtù non solo morale ma anche sociale. La solidarietà è anche una vera e propria virtù morale, non è come alcuni pensano un sentimento di compassione per i mali di tante persone, vicine o lontane. Non dobbiamo pensare questo.
La solidarietà è il riscatto per l’uomo di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno.
Altro termine che mi proponi è sofferenza, mi fa piacere che parliamo di sofferenza e non di malattia. Anche Giacomino Gaglione parlava di sofferenza.
Certo che possono camminare pari passo mano nella mano, anche perché a volte senza l’una non esisterebbe l’altra, dobbiamo stare attenti però a non confonderle.
La malattia, fisica o mentale, è da sempre una vera e propria prova della nostra capacità di affrontare la vita. Il primo step sta nell’accettarla e capire che è parte di te anche se non è così facile come sembra. Ciò che gioca molto sono le nostre emozioni. Sono loro che hanno il potere di darci quella forza, quella spinta di andare avanti e superare tutti gli ostacoli. A volte però la malattia non è mai accettata come parte del nostro naturale percorso, ma è sempre temuta.
A volte la malattia può trasformarsi e viene vista come un qualcosa che ti mette faccia a faccia con la paura e mille interrogativi, paure che mai ci sentiamo pronti ad affrontare.
La sofferenza invece tocca l’intimità dell’uomo, dello spirito. Malessere? Io non lo chiamo malessere. La sofferenza va a toccare la fragilità dell’uomo che viene messa alla prova. La sofferenza ti fa da specchio. Mostra il tuo stato d’animo, anche quello più profondo e nascosto. Va a toccare la fragilità dell’uomo. Non è un momento di maledizione ma di rinascita. La sofferenza è qualcosa che tocca dentro. Essa tocca le fragilità interiori dell’uomo della mente, del cuore e dell’animo umano.
Proprio alla sofferenza si rifà la condizione di “Giacomo Gaglione” un vero e proprio apostolo della sofferenza. Egli infatti scrive moltissime lettere agli ammalati, a cui dona una preziosa testimonianza di fede e il suo conforto. Usando le sue stesse parole, infatti, bisogna essere sereni nel sapere che “ogni sofferenza è seme di Gloria”.
Il miglior capolavoro, però, Giacomino lo compie nella sua vita, che diventa tutta un’offerta in intima unione con Gesù. Molti prendono la sua vita basata sulla “Sofferenza” come esempio. Sofferenza che diventa Fede.
A Lui, così immobilizzato e piagato, si ricorre per trovar conforto e ricevere sostegno e lui si tiene in contatto tramite lettera con chi è lontano.
Lei Don Antonio cosa ne pensa? Come può aiutare la solidarietà a crescere come fedele?
Questo in cui viviamo dovrebbe essere il tempo per capire il vero valore della solidarietà, l’importanza di essere una comunità unita sempre di più i suoi i valori. Cercando di essere solidali, con le opere caricateveli verso il prossimo, anche quelle che possiamo fare ogni giorno con piccoli atti d’amore. Secondo me quella contro il coronavirus non sarà una guerra di breve periodo e l’entità dei danni che provocherà in gran parte dipende da noi. Questa pandemia ci mette molto alla prova. Guardandoci intorno potremmo renderci conto che ci sono molte persone in difficoltà, se abbattiamo questi muri potremmo allungare la mano e sostenere chi ci sta accanto. Tessendo reti solidali, aprendo il nostro cuore verso il prossimo. Essere solidali significa essere altruisti, disposti ad aiutare gli altri nei momenti di difficoltà senza chiedere nulla in cambio. Se tutti arrivassero a capire questo valore credo che possa crescere anche nell’animo come fedele.
Perché la sofferenza?
A questa domanda ci risponde il Venerabile Giacomo Gaglione, che della sua vita
figlio spirituale di Padre Pio, in questo volume scritto dal postulatore Antonio Di Nardo con la prefazione del vescovo di Caserta S.E. Mons Giovanni D’Alise scomparso di recente, a cui lei era molto legato.
Giacomo Gaglione ci insegna che l’ammalato è un figlio prediletto da Dio, che non deve arrendersi o nascondersi. Anzi, deve imparare a pensare se stesso in modo nuovo: non come oggetto passivo di carità, ma come protagonista di apostolato fra i sofferenti, un testimone trasfigurato capace di trasmettere ai fratelli la forza la bellezza del suo sì al Signore anche nella malattia
“Giacomo Gaglione , dopo la sua conversione, avvenuta nelle mani di Padre Pio, nel 1919, iniziò a prendere tra le mani il libro della Sacra Scrittura. La Passione del Signore fu oggetto di meditazione continua.
Il Cristo Crocifisso fu strada e meta per accettare la sua croce. Croce che considerò il dono più prezioso fattogli dal Signore.
Questo suo itinerario, che possiamo definire mistico, lo condusse ad una gioia interiore tale che informò la sua vita e il suo apostolato. Nella sua vita è particolarmente evidente il cammino della croce, ma attenti a non fermarsi ad essa. L’amore alla Parola di Dio e all’Eucarestia lo lavorano intensamente e gli fanno cantare l’Alleluia pasquale. Infatti egli afferma che:
“Ogni sofferenza è seme di Gloria”. Questo è l’itinerario che Gaglione offre ad ognuno di noi: raggiungere la croce trasfigurata dalla gloria del Padre. Giacomo al termine della sua vita viene trasfigurato in Gesù Risorto, perché riconosce che il suo essere e il suo vivere è nulla senza Cristo”.
Primo di dieci figli di una famiglia casertana nasce il 20 luglio 1896. Intelligente, studioso, brillante ed esuberante, miete successi nel ciclismo e con le ragazze, ama il ballo e la vita mondana che il suo livello sociale gli sembra garantire.
Nel giugno 1912, esattamente un secolo fa, la mattina stessa in cui avrebbe dovuto sostenere una prova d’esame un dolore particolarmente acuto al tallone del piede sinistro è il primo inaspettato sintomo di una poliartrite reumatica deformante, di fronte alla quale la medicina è impotente. Il 20 ottobre di quello stesso anno si mette a letto per non rialzarsi più, mentre assiste al naufragio di tutti i suoi sogni di adolescente.
Assillato dai mille perché che accompagnano ogni malattia; tormentato dall’amore che prova, ricambiato, verso una cugina con la quale già aveva iniziato a progettare il matrimonio e che ora gli impediscono di vedere; dolorosamente segnato nel fisico da dolori lancinanti in tutto il corpo che gli rendono estremamente doloroso anche il semplice cambio di biancheria e gli impediscono di nutrirsi da solo,
Giacomino attraversa un periodo di buio interiore durante il quale, a più riprese, pensa al suicidio. Nel 1919, avendo sentito parlare di Padre Pio ed attratto dal miraggio di una guarigione, si fa accompagnare a San Giovanni Rotondo, dove “non riceve la grazia”, ma “trova la grazia”.
Torna a casa completamente trasformato: inizia a dipingere e la sua casa diventa meta di numerosi artisti casertani, si dedica allo studio della Sacra Scrittura e dedica tutta la sua sofferenza e il suo dolore al Signore, perché credere significa anche soffrire. .
Il miglior capolavoro, però, Giacomino lo compie nella sua vita, che diventa tutta un’offerta in intima unione con Gesù.
Molti prendono la sua vita basata sulla “Sofferenza” come esempio. Sofferenza che diventa Fede.
A Lui, così immobilizzato e piagato, si ricorre per trovar conforto e ricevere sostegno e lui si tiene in contatto tramite lettera con chi è lontano.
Nel 1961 il suo corpo diventa un’unica piaga per le vesciche che dalle gambe si espandono in tutto il corpo.
Muore il 28 maggio 1962. Proclamato venerabile, si è in attesa del riconoscimento del miracolo che ne consenta la beatificazione
No. Non lo vedono, non lo sperimentano. Bisogna presentare l’umanità del Cristo ai giovani, solo così possono conoscere “Il Vangelo”. I giovani hanno bisogno di conoscere il Verbo fatto Carne, nell’umanità dei poveri, dei deboli, dei fragili, di ogni uomo che soffre, sperimentando le loro ferite, condividendo la vita con loro. Solo così potranno conoscere chi è Nostro Signore.
Grazie per questa breve chiacchierata, che spinge tutti a voler bene al prossimo dando valore a piccoli gesti che fino ad oggi ci sembravano superflui. Nessun essere umano può vivere solo o senza il bisogno di essere aiutato. Abbiamo bisogno gli uni degli altri , per farci forza sempre nella vita non solo in questo duro periodo che stiamo vivendo. Grazie Don Antonio colgo l’occasione per augurarle Buon Natale.
Grazie a te Imma Buon Natale a tutti a presto.