CASAPESENNA. “Fortunato Zagaria fece ricorso lucido e consapevole alle modalita’ tipiche del sistema mafioso, al fine di rafforzare la portata intimidatrice della sua azione dissuasiva e spaventare effettivamente la vittima”. E’ quanto scrivono i giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere nella sentenza che ha condannato ad un anno e mezzo di carcere, per tentata violenza privata con l’aggravante del metodo mafioso, l’ex sindaco di Casapesenna Fortunato Zagaria, e che ha assolto il capoclan Michele Zagaria (solo omonimo del primo) e l’ex consigliere comunale Luigi Amato.
Vittima e parte offesa e’ Gianni Zara, anch’egli primo cittadino per appena dieci mesi, tra il 2008 e il 2009, del paese dove il boss Michele Zagaria ha trascorso parte della sua lunga latitanza, venendo poi catturato nel dicembre 2011. Fortunato Zagaria e’ stato riconosciuto colpevole di aver minacciato con tipiche modalita’ mafiose Zara durante un incontro avuto il primo ottobre 2008 allo stadio di Casapesenna, dove gli intimo’ di non rendere dichiarazioni o interviste ai giornali che fossero di elogio alle forze dell’ordine per la cattura di latitanti, prospettandogli anche la sorte toccata ad un ex assessore di Casapesenna, vittima di un agguato e rimasto sulla sedia a rotelle per 20 anni prima di morire; in quel momento Zara era sindaco e Zagaria, che aveva gia’ governato per due mandati, era il suo vice.
La minaccia avvenne perche’ il giorno prima Zara aveva emesso una nota stampa in cui elogiava le forze dell’ordine per la cattura di tre latitanti dei Casalesi facenti parte dell’ala stragista guidata da Giuseppe Setola, che proprio nel 2008 aveva seminato il terrore nel Casertano; Zara aveva auspicato la cattura anche dei latitanti piu’ importanti del clan, ovvero Antonio Iovine e Michele Zagaria, e cio’, secondo quanto emerso dal processo, avrebbe spinto Fortunato Zagaria a muoversi e a minacciare Zara. La Corte non ha pero’ riconosciuto la collusione dell’ex sindaco Zagaria con il clan omonimo, ritenendo non raggiunta la prova ne’ del concorso esterno che della partecipazione al clan; ne’, per i giudici, le dimissioni di 13 consiglieri avvenute qualche mese dopo il fatto, che provocarono la caduta della giunta Zara, rappresentano, come ipotizzato dalla Procura napoletana, un favore fatto al clan, che cosi’ si sarebbe tolto di mezzo un sindaco scomodo come Zara che non rispondeva a nessuno.
La Corte scrive infatti come le “dimissioni dei consiglieri sono evenienza non del tutto inaspettata, apparendo al contrario la coerente conseguenza di un malcontento diffuso all’interno dell’amministrazione”; Zara, emerge dal processo, aveva cambiato registro provocando malcontento, aprendo concretamente alle iniziative anticamorra, rispetto al decennio precedente in cui aveva governato Fortunato Zagaria. I giudici, a proposito di Zara, scrivono di una sua “consolidata propensione nella lotta alla criminalita’ organizzata, testimoniata anche dal suo impegno associativo, condiviso con la moglie Tina Cioffo dedita all’attivita’ giornalistica, oltreche’ alle iniziative assunte nel breve mandato di sindaco”. Di Fortunato Zagaria, sottolineano, in relazione alle sue sindacature, “l’approccio piu’ prudente e di non marcato contrasto rispetto a tematiche scottanti come quelle della lotta alla camorra”; “ma e’ semplicistico – proseguono – ritenere che tale diversa e magari non lodevole concezione del proprio ruolo istituzionale fosse, per cio’ solo, sintomatica dell’esistenza di un consolidato rapporto di collusione tra il prevenuto e il clan”.
La sentenza esclude infine qualunque intento vendicativo di Zara nei confronti di Fortunato Zagaria, cosi’ come prospettato dalla difese, anche perche’ l’indagine parti’ solo un anno dopo la fine dell’amministrazione Zara, quando ormai quest’ultimo era uscito di scena, e su iniziativa della Dia, che si mosse raccogliendo la denuncia dell’allora ex sindaco. “Zara, pur avendo in un primo momento cercato di ricandidarsi, decideva di abbandonare la scena politica, accettando in silenzio il suo declino, sicche’ non avrebbe avuto alcun senso vendicarsi ad un anno di distanza dai fatti, non potendo piu’ ottenere alcuna contropartita”, conclude la Corte.