Santa Maria Capua Vetere. Ilaria Labate, l’avvocato ferito ieri pomeriggio nella ressa scaturita in tribunale dopo la lettura della sentenza per l’omicidio di Katia Tondi, ha raccontato via social quei momenti. Nel tentativo di intervistare Emilio Lavoretano, condannato a 27 anni e indagato a piede libero, è stata spinta da una troupe: nella caduta la professionista ha riportato una frattura al braccio.
“Questo braccio ingessato oltre alle contusioni plurime refertate dal pronto soccorso sono il risultato degli spintonamenti di una giornalista di Mediaset la quale non mi ha nemmeno aiutata a rialzarmi dopo avermi fatta cadere perché non doveva perdere di vista Emilio Lavoretano. Mi chiedeva insistentemente una dichiarazione e ci rincorreva. Insistentemente. Dopo diverse gomitate nel tragitto tra la Corte d’assise di Santa Maria Capua Vetere e il parcheggio ha pensato bene di fermarmi. E l’ha fatto così. Queste sono le conseguenze. Un braccio rotto.
Possibile che in un paese che dovrebbe essere civile all’alba del 2020 sia questo il modo di fare informazione?
Un imputato e qualsiasi altro soggetto ha il diritto di restare in silenzio in questo paese? Ognuno di noi ha o non ha diritto di non voler apparire in telecamera e cercare i riflettori? Questo comportamento non integra quanto meno il reato di molestia? Non è biasimevole il comportamento di colui che a tutti i costi pretende, con la forza, una dichiarazione da un soggetto sí imputato, sí condannato, ma a cui, anche dinanzi alla giustizia, è concesso di non rispondere pur prendendo atto da parte dei magistrati della sentenza emessa? Il reato di molestie previsto dall’art. 660 del codice penale punisce “chiunque in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo” con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a 516 euro. Possibile che da avvocato e da cittadina di un paese “civile” come l’Italia all’alba del 2020, nell’esercizio del mio lavoro, abbia dovuto subire tutto questo ?”
La Corte d’Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha condannato a 27 anni di carcere Emilio Lavoretano, imputato per l’omicidio della moglie Katia Tondi, la 31enne strangolata il 20 luglio del 2013 nella sua abitazione di San Tammaro. La condanna inflitta è di poco più alta della richiesta avanzata dal pm Domenico Musto durante la requisitoria dello scorso 27 novembre di 25 anni; la Corte ha anche condannato Lavoretano a pagare una provvisionale di 500mila euro ai familiari della donna, sospendendo inoltre la patria potestà dell’imputato in relazione al figlio piccolo, che la sera del delitto era in camera da letto e aveva appena otto mesi. Alla lettura della sentenza erano presenti i genitori della vittima, costituitisi parte civile (difesi da Gianluca Giordano); in aula anche Lavoretano, accanto al suo legale Natalina Mastellone.
Lavoretano ha affrontato il processo da uomo libero, unico imputato. Un processo basato su indizi convergenti, andato avanti tra perizie di medicina legale relative all’ora della morte, in cui un contributo rilevante è stato fornito anche da qualche testimone. Tra gli elementi che hanno probabilmente pesato sulla decisione della Corte, la consulenza, richiesta dalla Procura, dell’ex generale del Ris dei Carabinieri Luciano Garofano, che anche il perito nominato dallo stesso tribunale ha sostanzialmente ripreso. Secondo Garofano, Katia Tondi sarebbe stata strangolata (mai trovato l’oggetto utilizzato per ucciderla) tra le 18 e le 19 del 20 luglio, in un arco temporale, in cui – secondo l’accusa – Lavoretano era in casa e avrebbe ucciso d’impeto la moglie. Lavoretano, agli investigatori della Squadra Mobile di Caserta intervenuti nell’abitazione della coppia, disse di aver trovato Katia che «era già morta». Poi aggiunse di essere uscito poco prima delle 19, quando la moglie era ancora viva, di essere rincasato intorno alle 20, e di aver rinvenuto il corpo della donna accasciato vicino alla porta di casa, lasciando intendere che la morte sarebbe avvenuta tra le 19 e le 20. A conferma del suo alibi, l’imputato consegnò anche uno scontrino della spesa, e fu inizialmente creduto, salvo poi essere smentito proprio dalla perizia di Garofano.
Altro elemento che potrebbe aver inchiodato Lavoretano è la testimonianza dei titolari del negozio di ortofrutta che si trova nei pressi dell’abitazione della Tondi, che in aula, nell’aprile del 2018, dissero di aver visto, il pomeriggio in cui fu uccisa Katia Tondi, il marito uscire in auto con il padre, almeno due ore prima che l’ambulanza del 118 arrivasse a casa della Tondi, ovvero tra le 20.20 e le 20.30. Dichiarazioni che hanno confutato quelle del padre di Lavoretano, un ex carabiniere in passato in servizio anche a Casal di Principe, che aveva detto di non aver visto il figlio quel pomeriggio. Secondo l’accusa, padre e figlio si sarebbero messi d’accordo sulla versione da fornire.