Marcianise/Capodrise. Si è concluso con una stangata per i Musone il procedimento aperto dopo il sequestro di cinque anni fa dei beni riferibili alla famiglia del boss capodrisano, pezzo da novanta dei Belforte e ormai recluso da anni. Nelle ultime ore sono state depositate le motivazioni con le quali nello scorso dicembre la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione aveva rigettato il ricorso di Vittorio Musone e rigettato le istanze dei terzi interessati dal sequestro, imparentati con il ras (Concetta Della Valle, Eremigio Musone, Maddalena Musone e Roberto Piccolella).
Nel 2014 il tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva applicato nei confronti di Musone la misura della prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di dimora per due anni e la confisca di beni mobilie e immobili. Il legale di fiducia dei Musone, l’avvocato Angelo Raucci, presentò ricorso facendo leva sul fatto che il clan Belforte è ormai smembrato e che l’arresto di Vittorio Musone risaliva al 1998: le condotte divenute oggetto dell’indagine che ha poi portato al sequestro erano già state giudicate. Peraltro la sorveglianza speciale era stata decisa per un uomo non solo detenuto, ma anche ristretto al 41bis.
Per quanto riguarda l’aspetto economico la difesa ha giustificato i redditi delle due coppie interessate dai sequestri e della moglie. Nodo chiave è stata la ditta edile del figlio, Eremigio Musone, che secondo i giudici era stata portata avanti grazie ai proventi illeciti al punto da essere di fatto del padre. I beni presi in esame nel pronunciamento della Suprema Corte e che quindi, salvo colpi di scena, dovrebbero essere confiscati, non sono però quelli oggetto dell’operazione Dynasty dell’aprile 2016, che pure coinvolse Musone jr. Già nel 2011 alcuni beni della famiglia del 67enne boss capodrisano vennero requisiti nel corso di un blitz effettuato dagli uomini della Dia di Napoli tra Marcianise e Capodrise.