Il consigliere Bosco vittima e accusatore: svelato alla Dda il “sistema Capone”

Caserta. Il boss in carcere gestiva gli affari, anche della droga e delle affissioni in occasione delle elezioni, attraverso dei pizzini. Inoltre solo la ditta della moglie doveva affiggere a Caserta i manifesti elettorali in occasione delle Regionali del 2015. Per le altre aziende non restava nulla. Emerge dall’indagine della Dda di Napoli e dei carabinieri che ha portato agli arresti 19 persone, tra cui due politici candidati alle Regionali accusati di voto di scambio politico-mafioso.

 

E’ un altro candidato, poi diventato consigliere regionale, Luigi Bosco (ascoltato come persona informata dei fatti dagli inquirenti) attualmente in maggioranza, a raccontare il sistema di affissioni imposto dal boss Giovanni Capone, esponente del clan Belforte, che anche dal carcere – è detenuto da anni – gestiva tramite i “pizzini” e il fratello Agostino gli affari illeciti, tra cui anche lo spaccio di droga e la compravendita di voti.

 

Agli inquirenti Bosco ha raccontato che un suo collaboratore, durante l’affissione dei manifesti a Caserta, era stato aggredito da alcune persone che gli avevano intimato di allontanarsi, in quanto nessuno poteva affiggere senza il loro consenso; dopo tale episodio, inoltre, l’affiliato Vincenzo Rea (finito in carcere) si presentò presso il suo comitato elettorale con fare spavaldo, garantendo che affidando a loro l’affissione dei manifesti “avrebbe avuto la giusta visibilità”, viceversa “avrebbe avuto dei problemi”.

 

Si chiamava “Clean Service” la società della moglie di Capone, Maria Grazia Semonella (finita ai domiciliari); per il clan il guadagno – è emerso – è stato di 17.000 euro, soldi destinati anche al mantenimento degli affiliati detenuti. E’ inoltre accaduto che dei soggetti che stavano affiggendo manifesti elettorali di notte siano stati minacciati e aggrediti, e che i manifesti siano stati coperti dagli uomini di Capone.

 

L’indagine ha anche svelato un vasto traffico di cocaina e hashish a Caserta, gestito da Agostino Capone, che voleva diventare unico referente per il clan, ma non vi è riuscito in quanto non è stato in grado di pagare le partite di droga acquistate dai fornitori dell’agro-aversano e del Parco Verde di Caivano, tanto da essere prelevato da casa sua e portato in una località sconosciuta fino al pagamento di parte del debito

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